E se mi fossi già giocato la mia dose di felicità?

di Andrea Devis

È assodato che la vita sia un alternarsi di momenti pessimi con momenti meno pessimi, fino a giornate meravigliose e ad altre decisamente da dimenticare. Lo confermano le persone e le loro storie, ambientate in qualsiasi epoca e in qualsiasi città. Se l’esistenza è quindi un incostante sali-scendi tra gli stati d’animo, in quale proporzione la felicità ci è concessa? Quanta ne abbiamo a disposizione? Si presenta in stato solido, liquido o gassoso? Qual’è l’unità di misura che si usa per quantificarla? Litri? Chilogrammi? Flûte? Tutti ci si vorrebbero ubriacare, con la felicità (a parte certi poeti e alcune categoria di artisti) ma il vero problema credo sia un altro, ovvero: come riconoscerla? C’è chi capisce solo dopo un apocalittico “dopo” che si trattava proprio di lei; c’è chi non lo capisce e la scambia per euforia destabilizzante; c’è anche chi crede di averla trovata -ma sempre “dopo”- si rende conto che di strada da fare ne manca parecchia.

Se il problema è proprio definirla -per saperla poi prontamente riconoscere- siamo sicuri di sapere cosa sia? Una volta raggiunta, non si finisce -conoscendo la sua natura effimera- per vivere con la paura del momento in cui essa si esaurirà? Vivere con la paura per la propria felicità non è “essere felici”, la felicità non è dunque mai stata incontrata?

Ogni tanto penso: e se mi fossi già giocato la mia dose di felicità? Se la dose minima garantita dal creatore me la fossi già sperperata? L’ho saputa riconoscere? Era autentica? Quando ha iniziato esattamente a sfumare?

Non lo so. Forse l’equilibrio non lo si raggiunge con la felicità che stordisce, ma con una costante -e se vogliamo anche meno appariscente- serenità.