andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: vita

Eloquenti emozioni

Convenevoli obbligati, preludi, fastidiosi intercalare. Tutti ti salutano chiedendoti come stai? e poi nemmeno aspettano la risposta. Mettiamo i filtri alle fotografie, nella ricerca dell’anima gemella, alle intenzioni e ai modi. Ma non sempre. Non tutti. Eppure il desiderio di schermarsi è figlio di questi anni zero. Una protezione proiezione di quello che vorremmo essere, o in altri casi di quello che fingiamo di essere.

Ho fatto il giro un po’ più largo, ma la verità è che avevo semplicemente voglia di passare sotto casa sua. L’estate ha spogliato Milano: parcheggi vuoti e stazioni semi deserte. La città diventa una sorta di cimitero, il campo di una battaglia combattuta durante la guerra fredda dell’amore. Vorrei mettere l’autotune ai pensieri, che seguono un’intonazione tutta loro. Massì, sto bene.

Sto portando a termine un disegno e sono già proiettato in un altro luogo, sfuggendo all’idea di un rimpianto per il tempo passato, perduto e certe volte sprecato. Metto insieme le idee, raccolgo un paio di note, qualche accordo e tante parole allontanate. Cerco l’armonia perfetta per la mia canzone, inseguendo una chimera distante da tutto.

La vita è storta, bellissima.

Non scambiare la solitudine per indipendenza e non diventare dipendenti dalla solitudine (2016)

Ci sono giorni in cui, camminando per le vie del centro o seduto a sorseggiare caffè in un qualsiasi bar di Milano, mi sembra di riuscire a vedere solo loro: le coppie. Affiatate, innamorate, appassionate. Loro, ed io.
Al riparo da ogni patetico e pindarico volo romantico, mi gusto l’indipendenza: senza zucchero e costantemente bollente.
La solitudine non è una conquista, ma il risvolto di una medaglia vinta per coerenza con il proprio personaggio.
Il mio personaggio scrive canzoni (anocoluti musicali), scrive sognanti lettere d’amore a sconosciuti, scrive per una rivista indagando le più strane abitudini sessuali degli uomini, scrive sms troppo indecifrabili per essere definiti short, scrive sul blog e occasionalmente scrive anche sui muri.
Scrive.
Stavo raschiando il fondo del barile della mia non-storia con il Cinghia, perché anche se ormai era stato già detto tutto (ovviamente era bastato pochissimo) avevo voglia di scrivere. Resto sempre sorpreso quando partorisco brillanti cascate di parole partendo da avvenimenti che per lo più si verificano solamente nella mia testa.
Quasi infastidito dal continuo andirivieni delle reali o presunte coppie che sfacciatamente mi si palesavano davanti agli occhi senza alcun ritegno, ho mandato a fanculo l’idea dell’ennesimo lamento e ho preso un foglio bianco. Ho tracciato una linea e l’ho datata, anno per anno, dal 1984 ad oggi. È soprprendente vedere come le cose più importanti – pure e soprattutto quelle vissute in coppia – vengano in realtà percepite individualmente. Noi siamo uno.

E se l’indipendenza è per alcuni un vanto – uno scettro da mostrare, un certificato di proprietà della propria vita, il premio conseguito dopo anni trascorsi sopportando la stronza di turno scelta in tempi in cui tutto era diverso – per altri è solo solitudine. Diventa un atto protettivo, che allontana dalla realtà e costruisce altro. Casseforti a combinazione grandi abbastanza da contenere una vita. E se è troppo, si lascia fuori qualcosa, anche se generamente non si riesce mai a lasciare fuori quello che si vorrebbe. Su un’isola di Sant’Elena improvvisata un po’ dove si vuole, gli episodi con gli epiloghi drammaticamente inaspettati diventano gli argini dell’esilio. Ma che noia.

Compito dell’immaginazione è la redenzione della realtà diceva Dávila.

Alibi

Inaccessibili, lontani dalle definizioni e dichiaratamente disinteressati al peregrinare del cuore. Osservo la fauna di una Milano ormai illuminata dalla primavera, mentre cerco di convincermi che la ruota posteriore della mia bicicletta non si sia irrimediabilmente deformata nell’ultimo salto dal marciapiede alle pietre consumate della strada. Uomini single, incoscientemente soli e comodamente liberi. Scrivo l’ennesimo canto sulle persone sbagliate: una collana di avventure sfoggiata fin troppe volte, decisamente logora. Cerco le parole ma le ho già finite tutte, e a instillare il dubbio è proprio quel vuoto. Perdo la testa per chi non posso avere, proteggendomi dagli eventuali temerari che – con il loro perdere la testa per me – potrebbero concretamente mettere a repentaglio la quotidianità che ora detesto e ora proteggo.

E allora via, un volto e poi un altro, un letto, un profumo fastidioso e inebriante, qualche frase sconcia e un più compìto saluto che con un po’ di coraggio potremmo specificare essere un addio. Nel carosello dei talenti ci dimentichiamo del cuore, per pigriza, o perché lo abbiamo già promesso a qualcun altro cui non interessa. Per salire sul carro dei vincitori, con le briglie ben salde attorno ai polsi, insieme alla paura che qualcuno possa da un momento all’altro provare a strapparcele. Poi ci piace. Fingerci prede, essere carnefici. L’illusione del controllo.

Abbiamo entrambi un paio di occhiali scuri, quando ci incontriamo. Dietro, gli occhi, ancora più scuri. Da anni abbiamo smesso di guardarci. Penso chissà che vita di merda, la sua. E rido. Ma forse nemmeno lo sa, nemmeno se ne accorge, nemmeno la vede, proprio come noi, oggi e sempre. I suoi abbracci, i suoi baci, non sono come quelli che avrei potuto dispensare io. Lo sa. Ma sono oltre, io. Confondo il soggetto, sbaglio strada, mi parlo troppo. E continuo a ridere, tirando le briglie, anestetizzato da nuove illusioni. Sono davvero oltre. Si attraversano epoche e persone, a volte inutili, spesso finendo tra le righe. O sopra, se si è fortunati.

Un approdo incerto e tutt’altro che felice. Ma ho imparato ad allontanarmi anche da chi è arrivato dopo, e ha messo le mani avanti. Io mi sono sporto per afferrarle. Un equilibrio senza grandi slanci emotivi è il vanto di questa primavera. Un uomo, l’amore che posso solo immaginare. Il mio alibi perfetto. Inaccessibile, lontano dalle definizioni e dichiaratamente disinteressato al peregrinare del cuore.

Siamo gestanti di amori che non ci appartengono. Di diritto.

L’antipatica questione della cena fuori

Il palco questa sera era distante. Più distante del solito, quasi avvolto dalla nebbia. Nonostante la prima fila, mi sentivo altrove. Ho bevuto con parsimonia il mio drink, assicurandomi un fondo sufficiente a garantire qualche sorso per i momenti di imbarazzo. Ma palco è solo un sinonimo di vita, e non importa in quale fila tu sia: se non ci sei sopra, con l’occhio di bue puntato su di te, non sei nel posto giusto.

Le relazioni sono un po’ come dei palcoscenici, e quando qualcuno ti vuole al suo fianco – ma confinato nell’ombra di un dietro le quinte qualsiasi, magari con altre comparse – non ne vale mai la pena. Nemmeno quando coscienziosamente ti imbrogli raccontandoti che da lì a poco ci sarà la tua entrata in scena da protagonista assoluto: trionfale e indimenticabile.

C’è poi l’antipatica questione della cena fuori, la mia moderna cartina tornasole per i rapporti. Basta solo menzionarla lontanamente, ed ecco che si assiste a misteriose sparizioni che neanche a X-Files negli anni novanta. A volte è capitato che fosse qualcun altro a ventilarla, millantando luoghi e ristoranti dalla discutibile nomea – non vanno bene per te – quando poi mi sarebbe bastata una serata a guardarsi negli occhi davanti a un bicchiere di vino bianco e a un piatto di pasta rossa.

Non resto certamente a digiuno, se non da quelle attenzioni che per qualcuno potrebbero essere considerate meramente accessorie. Ma non per me, non per noi soldati dell’amore.

E pensare che mi troverebbero proprio lì: tra il bicchiere di vino, la pasta, la crostata al cioccolato.

Sorridente, affianco alla felicità.

Il segreto della felicità è fare cose che ci rendano felici

Credo di aver individuato il problema. Non è tanto il punto di partenza, e nemmeno la destinazione. Si tratta di qualcosa di più insinuante, che – se per certi versi può vantare una quasi romantica sfumatura – ci condiziona l’esistenza, ipotecando la tranquillità di un viaggio continuo che potremmo per comodità chiamare vita.

L’attesa, che gran puttana. Resti lì, cercando di pensare a tutt’altro, eppure lei si manifesta nel peggiore dei modi. Ansia, ipotesi assurde, voli pindarici, cose del genere. Sarebbe tutto più facile se i capitoli della vita ci cogliessero continuamente di sorpresa. Nessuno sarebbe facilitato, nessuno avrebbe il tempo di preparare la risposta giusta o di calcolare la mossa perfetta. Un susseguirsi di sincere – e magari sconsiderate – reazioni, dettate unicamente dalla propria stabilità emotiva (o dalla totale mancanza di essa).

Mentre la mia delicata psicopatia mi rende appetibile agli occhi di alcuni, allontana altri (che sono poi sempre gli stessi). È una bella gara: prima l’attrazione per chi scrive sopra (e tra) le righe, poi la paura di leggere (continuando a fare a botte con un’attrazione che mai come in questo caso sarebbe più corretto definire “fatale”).

Il segreto della felicità è fare cose che ci rendano felici.