andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: strada

Così, non rimane che la notte

Ogni tanto, quando la sera tardi mi ritrovo a guidare su strade semi deserte illuminate solo da qualche lampione solitario, mi capita di piangere. Mi piace pensare che le lacrime piante mentre si è in movimento verso un posto siano come astratte, appartenenti a un luogo e a un momento che non esiste. Fa bene piangere, perché le lacrime concimano i pensieri e fanno nascere le idee. Ci si deve reinventare a volte, ed essere abbastanza arrivisti da trasformare ciò che ci angoscia in ispirazione, per creare e rinnovare. Versi di canzoni, aforismi contorti, frasi articolate… quante cose sono nate al volante della mia auto; pensare che non mi è nemmeno mai piaciuto particolarmente guidare.

Il tema del viaggio è meraviglioso. Puoi anche avere una meta fisica, ma la testa se ne va sempre in qualche altra direzione inaspettata. Se sai scegliere la musica giusta, puoi anche condizionarli, i pensieri. Apprezzi nuovamente la solitudine, che riprende a profumare di indipendenza.

La cosa più giusta da fare (o non fare) non è mai la più facile. Ma quello che è giusto per qualcuno, può non esserlo per qualcun altro. Dovremmo essere più presuntuosi, fare chiarezza e cercare di stare bene noi, perché poi chi ci ama -se ci ama- capisce. Ci sono strade, deviazioni, alternative, ma non c’è confronto che si possa procrastinare, perché poi sul tragitto -prima o poi- te lo ritrovi.

Prendo lo svincolo per Milano. Odio questo percorso: il navigatore dice che per arrivare a casa ci vogliono quaranta minuti, ma la strada è talmente brutta da farti raddoppiare la percezione del tempo. Disegno con la testa i profili di coloro che ho avuto al mio fianco: qualcuno che farà sempre parte di me, qualche comparsa lasciva svanita con la sera, o magari un paio di occhi buoni fuggiti via senza biasimo con l’arrivo di Maggio.

È sempre tempo di bilanci, e smontare le proprie convinzioni è dura. Arrivare a una verità richiede fatica. L’amore e i sentimenti in generale sono assoluti. L’amore è uno solo, così come la morte. Non ha importanza chi tu sia o come declini la tua vita, non ha importanza il modo in cui dimostri, non hanno importanza le parole che usi, non ha nemmeno così tanta importanza la strada che percorri.

Ci sono ragionamenti che richiedono la presenza indispensabile delle lacrime. Le lacrime sono prime donne, vogliono il loro spazio, non condividono la scena con nessuno, per questo non amano il giorno. A volte per sentirsi liberi (anche di essere liberi) bisogna scappare dai limiti, che sono sempre unicamente il risultato delle nostre spaventate sentenze.

Così, non rimane che la notte.

Persone che per strada trovano l’amore e persone che cercando l’amore si ritrovano per strada

Sento di tante persone che escono a fare quattro passi, e poi si ritrovano innamorate. Può essere, che per strada -inaspettatamente- ci si imbatta nell’amore; ma sono più portato a pensare che la maggior parte delle volte si tratti di passioni passeggere un po’ troppo romanzate. Mi preoccupa quando le persone sentono la necessità di dare un’importanza posticcia ai loro rapporti più “leggeri”, ma capisco che a volte la mancanza di un sentimento puro possa portare a considerare in maniera non obiettiva quello che si ha.

Credo che l’amore autentico porti a non porsi più domande, o che conduca a quesiti capaci di risolversi in uno sguardo. È una certezza: nella vita si incontrano persone destinate ad accompagnarci per sempre; non importa in quale o quali ruoli. I rapporti indissolubili sono quelli nei quali non contano l’effettiva presenza fisica o l’assenza, sono quelli dove vivi con la netta consapevolezza di essere qualcuno che riassume in sé stesso anche un po’ di qualcun altro. Si soffre, si sta male, e ci si augura che il proprio cuore abbia sviluppato gli anticorpi giusti per evitare di ricaderci di nuovo; anche se si sa bene che l’amore cambia forma e formula ogni volta, così le convinzioni acquisite con un’esperienza passata possono non valere più allo stesso modo e ciò che prima era considerato “sbagliato” può diventare improvvisamente giusto. Si tratta di una crescita, individuale e sociale.

Ci meritiamo una seconda possibilità, ma nel frattempo, aspettiamo la prima

Se ogni volta è come se fosse la prima volta, la seconda volta non esiste affatto. Esiste la uno bis, semmai. Considerando che ogni esperienza è a sé stante, la seconda volta mi viene da pensare che non esista sul serio. Esistono consapevolezza e relativismo etico, prezioso connubio di saggezza e omertà che deriva dalla nostra capacità di leggere il passato.

Quello che separa le relazioni, è uno spostamento faticoso, fisico e mentale, appesantito dal fardello delle esperienze che ci portiamo dietro. Non è raro vedere persone cadere nell’errore di rimpolpare il fardello con inutili e accessorie sperimentazioni di percorso, raggiungendo però come unico risultato un’inopportuna, ulteriore, lentezza.

La cosa più lacerante -per me- è l’attesa. Già sono attendista di mio, il restare quindi passivamente ad aspettare una nuova era diventa deleterio. Quando poi la fine di un’attesa non dipende da noi stessi ma da una serie di elementi al di fuori della propria giurisdizione… tutto si fa più complicato. Eppure è così che funziona! Le cose non si trasformano dall’oggi al domani, quasi mai. Le persone poi -si sa- non cambiano mai, nemmeno quando lo vogliono, figuriamoci se è qualcun altro ad avanzare la richiesta. Per non parlare di chi ha un passato talmente importante che lasciarselo alle spalle risulta impossibile. Hai praticamente il passato davanti a te; un passato prossimo insomma, che probabilmente andrebbe considerato come passato remoto, ma talmente remoto, che alla fine farà il giro dall’altra parte e diventerà futuro anteriore.

E se mi fossi già giocato la mia dose di felicità?

È assodato che la vita sia un alternarsi di momenti pessimi con momenti meno pessimi, fino a giornate meravigliose e ad altre decisamente da dimenticare. Lo confermano le persone e le loro storie, ambientate in qualsiasi epoca e in qualsiasi città. Se l’esistenza è quindi un incostante sali-scendi tra gli stati d’animo, in quale proporzione la felicità ci è concessa? Quanta ne abbiamo a disposizione? Si presenta in stato solido, liquido o gassoso? Qual’è l’unità di misura che si usa per quantificarla? Litri? Chilogrammi? Flûte? Tutti ci si vorrebbero ubriacare, con la felicità (a parte certi poeti e alcune categoria di artisti) ma il vero problema credo sia un altro, ovvero: come riconoscerla? C’è chi capisce solo dopo un apocalittico “dopo” che si trattava proprio di lei; c’è chi non lo capisce e la scambia per euforia destabilizzante; c’è anche chi crede di averla trovata -ma sempre “dopo”- si rende conto che di strada da fare ne manca parecchia.

Se il problema è proprio definirla -per saperla poi prontamente riconoscere- siamo sicuri di sapere cosa sia? Una volta raggiunta, non si finisce -conoscendo la sua natura effimera- per vivere con la paura del momento in cui essa si esaurirà? Vivere con la paura per la propria felicità non è “essere felici”, la felicità non è dunque mai stata incontrata?

Ogni tanto penso: e se mi fossi già giocato la mia dose di felicità? Se la dose minima garantita dal creatore me la fossi già sperperata? L’ho saputa riconoscere? Era autentica? Quando ha iniziato esattamente a sfumare?

Non lo so. Forse l’equilibrio non lo si raggiunge con la felicità che stordisce, ma con una costante -e se vogliamo anche meno appariscente- serenità.

Lasciare entrare e uscire le persone da sé stessi / Entrare e uscire dalle persone

Asfalto che si sgretola come ghiaccio secco sotto ai piedi, guanti irrimediabilmente spaiati persi sulla strada, stelle di Natale che paiono dipinte con smalti acrilici di bassa qualità. Il sole caldo si scontra con il freddo tagliente che fa sanguinare le dita. Mentre la natura e la città vivono le loro contraddizioni dicembrine, io cammino.

Mi guardo intorno e vedo tante persone: che cosa le lega veramente? Cammino e penso ai legami, agli intrecci e ai rapporti. Rapporti sentimentali, sessuali, amicali, superficiali, di convenienza, di convivenza e di convalescenza. Ascolto la gente: tutti vantano un ristrettissimo numero di amici “veri”. Chi sono quindi gli altri? Chi sono i falsi amici? Quando studiavo inglese, i falsi amici erano i termini morfologicamente somiglianti ad altri ma sostanzialmente diversi. I conoscenti sono quindi personaggi che somigliano ai nostri amici “veri” ma che poi sostanzialmente non lo sono? Un falso amico, può diventare “vero”? Lascio perdere le domande e continuo a camminare.

Si chiama tessuto sociale ed è quindi -per coerenza linguistica- costituito da una trama. Nei rapporti che noi tentiamo di intrecciare, quanta fatica siamo disposti a sopportare pur di diventare parte integrante del tessuto? Abitudini, aspirazioni, frequentazioni… le variabili sono infinite. Ci vuole spirito di adattamento. La città è un perfetto esempio non-umano: lei ospita dentro di sé persone diverse -le fa vivere, crescere e morire- non muta la sua anima, ma adatta il suo aspetto. Entrare e uscire dalle vite degli altri può essere un compito faticoso, l’importante è farlo con la consapevolezza: prodotto che non si compra e che pare sempre più unicamente destinato a un’élite.

Mentre cammino, penso all’autorità individuale. Io, affronterò l’esistenza senza farmi condizionare da presunti e presuntuosi assiomi, vivrò gli intrecci con curiosità e con onestà intellettuale, innaffierò la psiche e cercherò per lei l’ambiente più favorevole. Uscirò dalle persone senza rancore, senza rabbia e senza cattiveria. Farò di tutto affinché sia io a travolgere gli eventi e non viceversa.

Vivrò, possedendo ciò che avrò deciso di ricordare.