La ricetta della felicità (ovvero come utilizzare il relativismo etico a proprio vantaggio)
di Andrea Devis
Ascolto spesso i discorsi delle persone e mi rendo conto di quanto tempo si passi a rimuginare vecchi tempi e vecchie glorie, concentrandosi poco sul presente (che non appena diventa passato acquisisce un fascino fino ad allora impensato). La gente si lamenta, aspetta con ansia le vacanze, si sveglia triste la mattina solo perché è lunedì – o più verosimilmente perché insoddisfatta della vita che fa il lunedì. La gente è attendista, si lamenta dei figli e del sistema perché è giusto che sia così. La gente perpetra uno schema sociale che ci vuole eternamente stressati e sperpera un presente neutro a favore dell’insofferenza sociale. Bella merda, direi.
L’autolesionismo ha ben poco a che vedere con il masochismo, e il confine tra patologia, autodistruzione e piacere alternativo si fa veramente sottile. La consapevolezza del diabolico progredire delle nostre menti nei giorni a venire, mi ha dato lo spunto per fermarmi a guardare e a pensare.
Ho pensato a tutto quello che potrei avere dalla vita: un cancro alla prostata con metastasi alle ossa, un problema di dipendenza da crack, oppure un amico posseduto dal Diavolo. Potrei avere una famiglia povera e un fratellino malato terminale. Potrei avere un problema di alopecia precoce ed essere inestimabilmente grasso. Potrei essere allergico a ciò che più mi piace e avere disfunzioni erettili. Potrei essere nato nel nord Africa o vivere assemblando costose scarpe da ginnastica per pochi centesimi. Potrei anche avere un gatto con le zecche e un’incontenibile frustrazione nascosta stile Misseri.
Ho pensato anche a tutto quello che mi manca: come ad esempio un terzo orecchio in mezzo alla fronte, un dito cresciuto nel posto sbagliato o un amico che legge i libri di Fabio Volo.
Avevo infine iniziato a pensare a tutto quello che vorrei avere, ma ho poi cambiato rotta soffermandomi su quello che già ho. Non è sbagliato dedicarsi a sé stessi, ma è bene farlo in maniera sana, senza dimenticare mai la nostra condizione di privilegiati inconsapevoli.
Questo semplice e forse macabro ragionamento -fatto ascoltando la musica che amo in una giornata dove la pioggia sembra poter lavare via ogni cosa- mi regala, sparsi nel tempo, rari momenti di preziosa lucidità, nei quali ringrazio l’astratto con qualcosa di molto simile alla preghiera.
La concentrazione è sempre stato un mio problema. Mi distraggo facilmente. Se mi distraggo dal considerare ciò che ho, inizio a pensare a quello che non ho, a quello che vorrei avere, a quello che – soprattutto – non posso avere. Non posso, e basta. Per quello che posso, invece, la soluzione c’è, e comporta in genere cosucce come coraggio, determinazione, perseveranza, attivismo, concentrazione. Appunto.
Mi dimentico di concentrarmi e quindi mi dimentico di aver ben poco di cui lamentarmi, e che ben poco è quello che mi impedisce di essere felice, la maggior parte delle volte. E per rispondere anche al post precedente, questo essere felice non può essere misurato, la felicità non si esaurisce; non è questione di quantità, è la costanza che ci frega.
Comunque il tag “tags forvianti come le mie” è geniale.
Ahahahah! Grazie! Beh, con le tags ho questo rapporto conflittuale, da sempre…
🙂
(Anch’io mi sono sempre chiesta, in ogni caso, quanto sia eticamente giusto renderci consapevoli della nostra inconsapevole fortuna – e quindi felicità -facendo il confronto con le disgrazie altrui. Siamo esseri strani)
Stranissimi.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Ciao Andrea, potrei avere una tua email di contatto?
Grazie mille
eccola: andreadevis@hotmail.it
ciao!
Bellissimo post, davvero 🙂
Grazie, Marzia!
mmmmm I tempi andati… che dire…
èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè
vabbeh, beata gioventù, io oramai sono vecchio da buttare.
Vecchio? Da buttare? Non è una buona tattica -buttarsi giù- per predisporsi alla felicità!
Infatti non è una tattica…
E’ una malattia psicologica…
Distruggersi per riemergere…
Ce ne sarebbe da parlare per ore!