andreadevis

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Sentimentalmente impotenti (trascurabili mancanze)

È davvero necessario avere qualcosa in comune con chi ci piace, per poter avviare una nuova relazione? Forse è più sensato pensare che ad avere qualcosa in comune tra loro debbano essere le persone che ci piacciono. Se fossero invece le mancanze a fare la differenza? Inestirpabile, l’ostinazione di chi continua a cercare le persone giuste nei luoghi sbagliati (o nei corpi sbagliati). Proviamo a prendere le distanze dal passato, ma poi ricadiamo negli errori di sempre, provando ad affiancarci a un’altra persona – giusta e sbagliata – esattamente come quelle che ci sono state prima. Siamo la somma delle nostre esperienze, successi e fallimenti. Ci piacciono le persone con le quali soffriamo solo per avere qualcuno cui dare la colpa?

Ci ho provato, mille volte e più, a cambiare rotta, ad aggiustare il tiro, a ridimensionare le richieste, senza mai scendere veramente a compromessi; perché la felicità è una sola e non è negoziabile. Con certe persone si genera una strana energia. Frizzante, inebriante, al tempo stesso evanescente. Se ne diventa dipendenti. Si baratta la lucidità per l’emozione. Innovativo sport estremo – ma già démodé – e alla portata di tutti.

Perché sentiamo la necessità di trovare un colpevole contro cui accanirci quando si tratta di esaminare le nostre relazioni? Temiamo un rimprovero? Un monito per le inadempienze? Non ci perdoniamo mai nulla, ma spesso in amore – così come non esistono vincitori e perdenti – non esistono colpevoli contro cui scagliarsi. Si rimane soli, con il tempo a fare da giudice, così inefficacemente neutrale e così inavvertitamente spietato.

Ad accomunare le persone sbagliate – puntualmente fuori luogo – c’è il loro essere inappropriate, il loro essere sentimentalmente impotenti.

E ci siamo noi.

Non scambiare la solitudine per indipendenza e non diventare dipendenti dalla solitudine (2016)

Ci sono giorni in cui, camminando per le vie del centro o seduto a sorseggiare caffè in un qualsiasi bar di Milano, mi sembra di riuscire a vedere solo loro: le coppie. Affiatate, innamorate, appassionate. Loro, ed io.
Al riparo da ogni patetico e pindarico volo romantico, mi gusto l’indipendenza: senza zucchero e costantemente bollente.
La solitudine non è una conquista, ma il risvolto di una medaglia vinta per coerenza con il proprio personaggio.
Il mio personaggio scrive canzoni (anocoluti musicali), scrive sognanti lettere d’amore a sconosciuti, scrive per una rivista indagando le più strane abitudini sessuali degli uomini, scrive sms troppo indecifrabili per essere definiti short, scrive sul blog e occasionalmente scrive anche sui muri.
Scrive.
Stavo raschiando il fondo del barile della mia non-storia con il Cinghia, perché anche se ormai era stato già detto tutto (ovviamente era bastato pochissimo) avevo voglia di scrivere. Resto sempre sorpreso quando partorisco brillanti cascate di parole partendo da avvenimenti che per lo più si verificano solamente nella mia testa.
Quasi infastidito dal continuo andirivieni delle reali o presunte coppie che sfacciatamente mi si palesavano davanti agli occhi senza alcun ritegno, ho mandato a fanculo l’idea dell’ennesimo lamento e ho preso un foglio bianco. Ho tracciato una linea e l’ho datata, anno per anno, dal 1984 ad oggi. È soprprendente vedere come le cose più importanti – pure e soprattutto quelle vissute in coppia – vengano in realtà percepite individualmente. Noi siamo uno.

E se l’indipendenza è per alcuni un vanto – uno scettro da mostrare, un certificato di proprietà della propria vita, il premio conseguito dopo anni trascorsi sopportando la stronza di turno scelta in tempi in cui tutto era diverso – per altri è solo solitudine. Diventa un atto protettivo, che allontana dalla realtà e costruisce altro. Casseforti a combinazione grandi abbastanza da contenere una vita. E se è troppo, si lascia fuori qualcosa, anche se generamente non si riesce mai a lasciare fuori quello che si vorrebbe. Su un’isola di Sant’Elena improvvisata un po’ dove si vuole, gli episodi con gli epiloghi drammaticamente inaspettati diventano gli argini dell’esilio. Ma che noia.

Compito dell’immaginazione è la redenzione della realtà diceva Dávila.

Un ipotetico settembre

Mentre guidavo verso sud, vedevo Milano alle mie spalle diventare sempre più piccola. Con Last Goodbye in sottofondo, sembrava tutto più carico di significato di quanto non fosse, ma allontanarmi da tutto per un po’ – da solo – era un piacere che avevo terribilmente voglia di concedermi. Senza programmi precisi, senza una data di rientro, senza troppa roba nella borsa e senza tutte quelle cose che un tempo mi sarebbero servite per mettere a tacere l’ansia.

Firenze è sempre bella, così come è sempre bello perdersi tra le vie del centro la mattina, quando i turisti sono impegnati a riversarsi verso le sculture di Michelangelo o la fontana del Nettuno in piazza della Signoria. Temperatura perfetta, caffè bollente, una moneta per il sassofonista che suona il tema de La Bella & La Bestia e non manca nulla. Così finisco per ritrovarmi a passare la notte nell’appartamento di quattro studenti che praticamente neanche conosco; dovendo rendere conto solo a me stesso mando a fanculo il perbenismo, la puzza sotto al naso, tutto il resto e chiudo gli occhi.

Per un attimo mi sono tornate in mente le cose lasciate a metà, in attesa di quell’ipotetico settembre che potrebbe poi essere diverso dalle aspettative. Ma tutto sommato cosa importa? Le nuvole dell’Umbria sembrano più grandi, raggruppate alla stessa altezza, quasi a voler incorniciare l’autostrada. Camminare a notte fonda per le stradine di pietra attorno alla Rocca, nella parte alta di Spoleto, è meraviglioso. Mi fermo su una panchina a guardare il resto della città. Da quassù sembra ancora più bella. Salgo le scale di pietra per arrivare all’ingresso dell’appartamento, gustandomi la solitudine: da chiassosa si fa sempre più quieta, fondendosi dapprima con il rumore dei miei passi e poi finalmente con il silenzio.

Riapro gli occhi ed è già mattina. Sono riuscito a organizzare anche qui un pranzo di tutto rispetto per i miei amici. Mentre tagliavo le verdure della stessa dimensione – tra un po’ di tartufo nero e vino rosso – pensavo che se avessimo preparato la crostata di ricotta e cioccolato un giorno prima sarebbe stato meglio. Poi penso che sarà ottima per la colazione di domani. Poi arriva domani e non ne è avanzata nemmeno una fetta.

Riparto, ma lascio indietro i pensieri troppo articolati, la voglia di leggere tra le righe cose che non ci sono, le critiche, le lacrime inutili, le paure infondate e quel fare attendista con cui spesso ci si rivolge al futuro. Mi porto via i sorrisi, la voglia di divertirmi e basta, la sincerità di chi non fa programmi e la genuinità di chi non segue tattiche. Tra nuvole basse, stradine silenziose, il sapore della libertà e quello delle crostate ancora tiepide ma non ho voglia di aspettare, c’è tutto ciò che mi serve per essere felice.

Spoleto

Pretendo tutto quello che vuoi darmi

È successo all’improvviso, come praticamente accade quasi sempre in questi casi. Stavo sistemando casa. Una razionale distribuzione di oggetti in spazi più o meno predefiniti, con qualche accenno di cambiamento ma senza sconvolgere gli ordini. Erano appesi lì, sul termosifone del bagno: due asciugamani perfettamente piegati e forse ancora probabilmente umidi. Due.

È stato faticoso imparare a destreggiarmi nella confusione degli stati d’animo. C’è voluto del tempo, ma poi alla fine il mio equilibrio l’ho trovato. Da solo. Senza né un uomo né una donna al mio fianco. Una maturità conquistata, e indubbiamente sofferta. Irrinunciabile.

Tante persone cercano di fuggire dalle sofferenze della solitudine rifugiandosi nella coppia; eppure spesso è proprio lì che si patiscono i supplizi peggiori. Nel conflitto tra quello che si vuole, quello che ci si aspetta e quello che si ha. Perché tutti si ostinano a considerare l’amore come una meta, e non come un meraviglioso mezzo per rendere felici le persone che si hanno a cuore? Dovremmo lasciarci vivere dagli eventi e smetterla di essere intransigenti. Dovremmo smettere di avere la presunzione di sapere come siamo davvero e cosa è meglio per noi.

È già notte, non cambierò le lenzuola. Non sposterò gli asciugamani. Metterò i pensieri sul davanzale. Non aspetterò il momento giusto per iniziare ad amare. Inizio da me.

Sputi di riflessione

A cosa serve autorizzare le unioni civili se non è rimasto nessuno di civile cui unirsi?

Direi che è tutta una questione di tempismo, se non fosse già l’incipit di mille altri miei articoli. Ma è davvero una questione di tempismo, di pessimo tempismo per la precisione. Nella mia città, Milano, sono state autorizzate le unioni civili, ed è stato per me l’ennesimo sputo di riflessione. Al di là della tremenda parola “autorizzazione”, che già di per sé ci riporta ai tempi in cui era il pater familias ad avere totale potere sulla vita dei figli, ho pensato al bisogno incontrollabile di sentirsi parte integrante di qualcosa: una famiglia, una coppia, la società stessa. Vale davvero la pena unirsi a qualcosa o a qualcuno? Certamente sì, ma il problema è sempre lo stesso: chi?

Beffardamente fuori tempo massimo, ci propinano queste unioni. Qualcuno è unito, qualcuno si unirà, qualcun altro -all’inizio riluttante e un po’ snob all’idea- ci sta ripensando. Io penso agli altri -a noi altri- persone di poca fede che faticano a riconoscersi in un prototipo. Lo so; ci si sente presi in giro. Mi guardo intorno come al solito senza trovare nemmeno una donna (o un uomo) alla quale valga la pena, civilmente, di unirsi.

A tal proposito c’è grande confusione in città, e i modelli proposti sono forvianti. Nel mio intimo c’è chilly -e basta- ormai da molto tempo. Pare anche che vodafone non giri più intorno a me e che la coop non sia veramente io. Garnier non si prende più cura di me e come se non bastasse hanno scoperto una nuova diffusissima malattia femminile: la cellulite.

Tutti se ne lavano le mani e poi impazziscono cercando la fede, che spesso non è perduta, ma solo ferma in fondo allo scarico del lavandino.