andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: strade

Primavera

Distese

Di papaveri, sottili, incauti

Ai bordi di strade senza nome, dimenticate ma percorse

Ostinati, ritornano, per coprirsi di nero

Puttane, di notte, contemplano

Nel buio, forme indefinite di amore

Legami (luoghi impressi in fondo agli occhi)

È notte. Sto rientrando a casa attraversando in taxi una Milano avvolta nella nebbia; è incredibile quanto certi luoghi mi parlino: strade, edifici, crocevia… mi domando cosa sia a legarci veramente ai luoghi che abitiamo. Penso, cercando il capo di una matassa che pare ogni giorno più ingarbugliata. Trascorro la mia vita provando a mettere in ordine le cose e quando finalmente mi sembra di intravedere un po’ di ordine, tutto improvvisamente torna a confondersi. L’attaccamento ai luoghi -del corpo o anche solo della mente- è legato all’amore: a quello vissuto davvero e a quello rimasto inespresso. L’amore per la nostra famiglia ci lega al nostro luogo natio, e l’amore per qualcuno -o un ritrovato attaccamento a noi stessi- ci lega a nuovi scenari. Marguerite Yourcenar, nelle sue Memorie di Adriano dice che il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi, e non c’è nulla di più vero. Quello dell’identità è un discorso importante, da molti sottovalutato. Così come è difficilissimo interrompere una relazione d’amore con un’altra persona, è complicato allontanarsi dai luoghi nei quali abitano i nostri sentimenti. Quando lasciare andare qualcuno che si ama diventa indispensabile, si soffre; ed è così anche quando -per ritrovare noi stessi- ci troviamo costretti ad allontanarci dai luoghi impressi in fondo ai nostri occhi. Le separazioni sono dolorose, a volte non necessarie, altre indispensabili, ma comunque conducono da qualche parte, facendoci attraversare nuovi territori, e soprattutto permettendoci di guardare il mondo con gli occhi di chi ha ancora voglia di sorprendersi.

I serial killer dell’ombrello

Quando piove, Milano si trasforma. Via Torino diventa Via Troiaio e le numerose pozze d’acqua piovana diventano dei piccoli laghi circumnavigabili. I proprietari di Piazza del Duomo (i Filippini) spariscono all’improvviso, mentre i piccioni si appallottolano -sporchi e malati- su qualche cornicione imbrattato della loro stessa merda. Gli inospitali taxi bianchi diventano introvabili, i semafori sembrano allungare la durata del rosso e le scale della metropolitana si trasformano in pericolosissime trappole mortali. È proprio in questo clima di perdizione che uomini comuni -in altri momenti innocui- mutano in pericolosissimi serial killer. L’arma di distruzione totale è l’ombrello: il manico tondeggiante ed ergonomico lo rende facilmente impugnabile in posizioni inumane, e il lungo puntale di metallo diventa la causa di possibili e inaspettati decessi di massa. Si apre, si chiude, si scuote, si dimentica… nella migliore delle ipotesi ti ritrovi con della pioggia vaporizzata in faccia tipo eau de toilette da discount, mentre nella peggiore potresti ritrovarti il puntale di metallo nello stinco o nel fianco.

Si può parlare di omicidio? No. Perché se fai notare loro l’obbiettiva goffaggine, ti senti rispondere: “beh? non ha visto che piove?”; e il punto è proprio questo: tu ti sei accorto che piove, ma loro certamente non si sono accorti che altre mille persone sono uscite di casa con lo stesso problema.

Siamo tutti potenziali vittime dei serial killer dell’ombrello.