andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: silenzio

Un ipotetico settembre

Mentre guidavo verso sud, vedevo Milano alle mie spalle diventare sempre più piccola. Con Last Goodbye in sottofondo, sembrava tutto più carico di significato di quanto non fosse, ma allontanarmi da tutto per un po’ – da solo – era un piacere che avevo terribilmente voglia di concedermi. Senza programmi precisi, senza una data di rientro, senza troppa roba nella borsa e senza tutte quelle cose che un tempo mi sarebbero servite per mettere a tacere l’ansia.

Firenze è sempre bella, così come è sempre bello perdersi tra le vie del centro la mattina, quando i turisti sono impegnati a riversarsi verso le sculture di Michelangelo o la fontana del Nettuno in piazza della Signoria. Temperatura perfetta, caffè bollente, una moneta per il sassofonista che suona il tema de La Bella & La Bestia e non manca nulla. Così finisco per ritrovarmi a passare la notte nell’appartamento di quattro studenti che praticamente neanche conosco; dovendo rendere conto solo a me stesso mando a fanculo il perbenismo, la puzza sotto al naso, tutto il resto e chiudo gli occhi.

Per un attimo mi sono tornate in mente le cose lasciate a metà, in attesa di quell’ipotetico settembre che potrebbe poi essere diverso dalle aspettative. Ma tutto sommato cosa importa? Le nuvole dell’Umbria sembrano più grandi, raggruppate alla stessa altezza, quasi a voler incorniciare l’autostrada. Camminare a notte fonda per le stradine di pietra attorno alla Rocca, nella parte alta di Spoleto, è meraviglioso. Mi fermo su una panchina a guardare il resto della città. Da quassù sembra ancora più bella. Salgo le scale di pietra per arrivare all’ingresso dell’appartamento, gustandomi la solitudine: da chiassosa si fa sempre più quieta, fondendosi dapprima con il rumore dei miei passi e poi finalmente con il silenzio.

Riapro gli occhi ed è già mattina. Sono riuscito a organizzare anche qui un pranzo di tutto rispetto per i miei amici. Mentre tagliavo le verdure della stessa dimensione – tra un po’ di tartufo nero e vino rosso – pensavo che se avessimo preparato la crostata di ricotta e cioccolato un giorno prima sarebbe stato meglio. Poi penso che sarà ottima per la colazione di domani. Poi arriva domani e non ne è avanzata nemmeno una fetta.

Riparto, ma lascio indietro i pensieri troppo articolati, la voglia di leggere tra le righe cose che non ci sono, le critiche, le lacrime inutili, le paure infondate e quel fare attendista con cui spesso ci si rivolge al futuro. Mi porto via i sorrisi, la voglia di divertirmi e basta, la sincerità di chi non fa programmi e la genuinità di chi non segue tattiche. Tra nuvole basse, stradine silenziose, il sapore della libertà e quello delle crostate ancora tiepide ma non ho voglia di aspettare, c’è tutto ciò che mi serve per essere felice.

Spoleto

TE + ME = IO³

L’orologio segna un’ora troppo strana per restare a letto, eppure sono lì, immobile, a osservare le luci delle macchine illuminare a intermittenza le feritoie della tapparella. Ascolto in lontananza il rumore dei tram sulle rotaie, in un alternarsi di discese e salite di persone dirette chissà dove. Nella Milano che non riposa mai, due braccia mi stringono, e mentre dimentico a chi appartengono mi lascio andare a pensieri e riflessioni su me stesso e “gli altri” – entità astratta con la quale relazionarsi. Non so dove mi trovo, non ho più idea di che ore siano e non so nemmeno con certezza se si tratti della mia adolescenza o se ho già compiuto sessant’anni. Abbandono il corpo e mi osservo da fuori, ritrovando sul viso i segni di una stanchezza che non si chiama vecchiaia.

Che sia tutta una questione di somme, sottrazioni, potenze ed esponenti con risultati elevati alla seconda? Si intrecciano rapporti, si sciolgono legami, e molto spesso ci sembra di restare svuotati: senza nessuno da stringere tra le lenzuola la notte e senza un risultato concreto da stringere tra le mani di giorno. Si vivono giornate in simbiosi, si osserva chi si ama relazionarsi con il mondo, ci si scambiano parole e liquidi organici, si vive mettendo la propria individualità al servizio dell’altro, in un delicato gioco di equilibri dal quale non ci si dovrebbe distrarre mai.

Poi -per colpa di un destino che non seduce- si crolla. Mentre continuo a fluttuare a mezz’aria senza più essere capace di ritrovare me stesso, capisco che non esisto più così come ero abituato a conoscermi. Sono diventato la somma di due persone, o forse più. L’anima di chi ho incontrato si è fusa con la mia in un’irreversibile combinazione. Le smorfie involontarie, i gesti spontanei, l’assomigliarsi dei volti: testimonianze inconfutabili del vissuto di chi ha amato. Siamo il prodotto dell’amore, e la romantica presunzione che chi rivediamo in noi possa trovare specchiandosi il nostro sguardo nel suo, ci guida.

Le persone che incontriamo sono quindi il prodotto dei loro legami? Sono dunque a loro volta risultati e fattori di una precedente somma? Siamo costantemente tutti alla ricerca della combinazione chimica perfetta che scateni una re(l)azione gassosa? Mentre mi osservo, nel silenzio rotto dai rumori della città, mi chiedo se crescere non significhi fondersi, confondersi, concedersi, abbandonarsi, ritrovarsi, perdersi, prendersi e conoscersi.

In una parola, amare.

La solitudine crea dipendenza?

Mi sorprendo sempre di fronte all’evidenza.

Un gran numero di persone passa il tempo a millantare la bellezza della solitudine, che pare ormai diventata una moderna e inarrivabile conquista. In realtà c’è una gran confusione e spesso si finisce per scambiare la solitudine con la tranquillità, l’indipendenza, il silenzio… cose che sì, hanno a che vedere con la solitudine, ma senza contratto di esclusiva. Banalmente -altre volte- la solitudine non è altro che emarginazione e chi la conosce davvero ha ben poca voglia di vantarsi di qualcosa.

Solo, in uno dei tanti bar di Milano con “lunch-menu”, osservo le persone, sedute sempre in coppia (o relativi multipli), mentre la cameriera toglie il coperto extra dal mio tavolino. A pensarci bene, mi sa che si è frainteso tutto. Essere soli non significa non avere nessuno nel letto la mattina, non significa prepararsi in autonomia la cena, non significa vivere in un monolocale in affitto. La solitudine è probabilmente qualcos’altro. Uno stato mentale, una predisposizione, un modo di vivere e relazionarsi, qualcosa di profondo e radicato (un po’ come la disinvoltura delle Puttane Part-Time, vedi articolo del 6 settembre, su questo blog).

La cosa a parer mio più inquietante, non è tanto la solitudine in sé e nemmeno ciò che la provoca, quello che veramente mi spaventa è ciò che produce: persone che smettono di desiderare qualcuno al proprio fianco (arrivando addirittura a vivere i rapporti con gli altri in maniera frustrante e considerando la coppia una rinuncia a tempo indeterminato all’indipendenza), persone che smettono di cercare un confronto, persone che smettono di cercare il conforto, persone che perdono la capacità di immedesimazione nel prossimo (ammesso che l’abbiano mai avuta), persone che perdono la fiducia negli altri senza soffrirne, persone che finiscono per praticare delle interminabili, vanitose, virtuose, intime, autocelebrative -ma tutto sommato soddisfacenti- masturbazioni mentali, facendosele bastare e diventandone alla lunga dipendenti.

Probabilmente potremmo riassumere il tutto con il termine “egoismo”. Semplicemente, forse. Pare che la solitudine crei dipendenza. Io ne ho il terrore; di ammal(i)armi, tra l’altro, proprio non ne ho voglia.