andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: segreti

Il negozio di liquori

Frastornato dall’improvvisa quiete di un’irriconoscibile Milano svuotata della sua frenesia, mi sono rifugiato per un attimo dalle convinzioni e dalle mie ritrovate stabilità. Statico, mi sono rispecchiato nella vetrina del negozio di liquori, riflettendo sul riflesso, ubriaco di vita, talmente zuppo di certezze da risultare irremovibile per qualsiasi tempesta dalle ambizioni catastrofiche.

Un tempo avrei trovato rifugio nelle parole, prolungamento naturale dei malesseri, dei pensieri. Mi sarei messo alla prova con l’ennesima scelta sbagliata, solo per una manciata di emozioni che mi avrebbe reso più creativo, meno ingordo, inquieto. Ma oggi no. Mentre me ne stavo lì ad osservare pensavo al tradimento. Non quello degli amanti – quello del tempo. Bastardo, spietato, senza remore.

Meglio o peggio, cosa importa? Un attimo fa avevo vent’anni, uno zaino rosso con dentro il diario, due o tre desideri, parecchia ambizione, la merenda e pochi segreti (non ne sono mai stato un grande estimatore). E se c’è un tempo per ogni cosa, rimane la diffidenza. Per le speranze tradite, verso le persone che non hai mai incontrato, per quei traguardi che forse non hai mai desiderato davvero raggiungere – anche se non lo ammetterai mai.

Ma a cosa serve compatirsi? L’autocompiacimento, a chi giova?
Inseguire una chimera, per amare l’assurdo, rendendosi infelici. Guardarsi intorno, riscoprirsi consapevoli, amare e amarsi, anche se non è come ce lo si sarebbe aspettato.
La strada, il negozio di liquori, ubriacarsi di vita, le ritrovate stabilità.

La lettera che non ti consegnerò mai (scusa se ho voluto credere alle cose che non mi hai mai detto)

Eravamo sul divano, era domenica e pioveva. O forse non pioveva, ma mi sentivo come quando fuori piove senza sosta, e io sono al sicuro. Ascoltavamo Sade cantare is it a crime?, e qualche candela lasciata accesa per rendere tutto un po’ più cliché come piaceva a me illuminava i margini dei nostri corpi. Il confine tra la mia bocca e la tua si perdeva, mentre imparavamo a fingerci impermeabili al mondo, rimasto fuori insieme alla pioggia, immaginaria o reale che fosse.

Mi bastava. Una parvenza di quotidianità. Un po’ di caffè, il tuo odore tra le lenzuola, le frequenze di un’altra voce oltre alla mia negli angoli della casa. Spazi fisici e mentali, riempiti.

E mentre questa sofferenza diventa familiare, mi spavento. Resta solo un ricordo, sempre più opaco, appannato. Mi immergo nei pensieri sbagliati: il masochismo mi fa perdere la capacità di distinguere gli stati d’animo. È un filo sottile, quello che mi lega alla tua immagine: un cordone organico, umano, umido, per niente fragile. Eravamo un colore saturo, incredibilmente pieno e netto. Non una sfumatura.

Scorci di un passato ancora non abbastanza remoto. Frammenti di istanti. Bicchieri vuoti. Le tue scarpe vicino al pianoforte. I cuscini per terra. Noi ovunque.

Non ti consegnerò mai questa lettera perché non possiamo permetterci il lusso di porci domande, o di darci risposte che comunque non sapremmo articolare. Patetico, anacronisticamente romantico, inutilmente caparbio e psicologicamente instabile. Ho scritto tantissimo in questi mesi; cose belle, alcune commoventi. Tanta gente vi si è ritrovata. Ho provato a spurgare la delusione, a metabolizzare, a demonizzare, a relativizzare. Sono qui che scrivo una lettera che non consegnerò mai. La fragilità, la sensibilità e l’empatia sono armi a doppio taglio, con le quali mi ferisco sempre. Imparerò a maneggiarle, prima o poi.

Non esisti, se non nella mia testa. Ti chiedo scusa, per averti inventato, e per le parole che mi sono scappate, cadendoti addosso. Ti ho inventato perché ho troppo sentimento inespresso. Cerco di occultarlo ovunque, ma ormai nemmeno la mia arte riesce più a contenerlo e a trasformarlo. Troppo carburante. Sei stato la proiezione di un bisogno, e siccome mi piaci e hai gli occhi che sorridono, sei diventato la concreta manifestazione di un bisogno per definizione astratto. Avere qualcuno vicino è molto concreto, però.

Così attraverso un’altra mezzanotte, riempiendo lo schermo di lettere, che poi sono il miglior psicofarmaco, insieme alla musica. Un’orgia di parole che si combinano formando mucchi di pensieri.

Scusa se ho voluto credere alle cose che non mi hai mai detto.

Senza filtro

Va bene, non voglio esordire con una di quelle frasi tipo “si stava meglio quando si stava peggio”; innanzitutto perché trent’anni sono un po’ pochi per millantare un’esperienza da anziano uomo di mondo, e poi perché è semplicemente troppo facile lamentarsi opinando su un passato che a conti fatti nemmeno abbiamo vissuto a pieno. Questa è l’epoca di internet, dove la gente trascorre il tempo in un non-luogo chiamato web, nel tentativo (spesso vano) di stringere legami tutto meno che virtuali. Abbiamo un mezzo potentissimo: si può andare ovunque e raggiungere chiunque, eppure le persone finiscono per allontanarsi sempre più l’una dall’altra. Tra un social network e una porno app per il telefono, tra una foto filtrata e un retweet, ci dimentichiamo dell’importanza del contatto. E degli sguardi.

Mi è arrivato un suo messaggio sull’iPhone: si tratta di una mia foto, scattata dall’altro lato della strada. “Sei tu?” mi chiede. “Sì che sono io”, rispondo. Passa un po’ di tempo, e mentre cammino sotto al portico della palestra, incrocio uno sguardo che mi sembra di aver già visto, ma probabilmente mi sbaglio: troppo spesso fantastico su gente che in realtà non conosco affatto. Proseguo. L’altro ieri vado a pranzo nel solito posto, che ha un’insalata vegana niente male. Aspetto un amico vicino all’ingresso, mentre la cameriera prepara il tavolo. Il solito viavai di gente, la solita Milano della pausa pranzo, i miei soliti pensieri. Finisco l’insalata, scambio due chiacchiere e mi dirigo verso lo studio di C., per dare un’occhiata alle nuove opere che sta preparando per la sua mostra. “Ti ho visto ancora, eri fermo all’ingresso del ristorante, oggi, a pranzo” mi scrive in un altro messaggio. Rispondo. “Frequentiamo gli stessi posti, abitiamo vicini… perché non ci conosciamo sul serio? Così magari dopo potrai anche alzare lo sguardo e salutarmi quando mi vedrai in giro”, perché so che capiterà di nuovo.

Ammetto che un po’ mi piace. Certo, va sempre a finire malissimo, ma a me la seduzione piace. È quella che oggi manca nei rapporti. Tutto troppo facile, troppo diretto e con pochi filtri (escludendo ovviamente quelli di instagram).

È ormai vecchia di mesi, ma ripenso un po’ alla mia ultima cotta, in questi giorni. Non perdo mai la testa. Mai. Forse è stata la seduzione a fregarmi. La seduzione implicita, ovvero le parole bloccate tra le labbra chiuse e quelle irrimediabilmente scivolate dagli occhi; la musica che racconta e che dice troppo, e quelle fottutissime mani che sapevano sempre come prendermi e che -forse involontariamente- mi davano ogni volta l’impressione che non volessero più lasciarmi andare.

Guardiamoci di più negli occhi, e smettiamola di aver paura.

 

Farting (articolo leggero per stomaci forti che hanno mangiato pesante)

Dopo gli ultimi articoli, nobilmente sospesi con coerenza tra la solita malinconia e quel velo di autocommiserazione che mi piacciono tanto, ho deciso di concedermi un po’ di leggerezza con un articolo spensierato, ma che forse definire “leggero” non è propriamente corretto.

Si chiama “farting” (ovvero “scoreggiamento”) e pare sia una nuova pratica erotica con a mio avviso ben poco a che vedere con l’erotismo. La curiosità per la mente umana, in fatto di relazioni -anche quando, è proprio il caso di dirlo, si tratta di relazioni di merda- mi spinge a indagare e a cercare una ragione a tutto. La cosa che più mi sorprende è che c’è ben poco riconducibile al sesso, essendo l’atto palesemente distante da una connotazione tradizionale di “intimità” sessuale (o forse fin troppo vicino, non saprei).

Per dirla tutta, il farting è legato al mondo BDSM (bondage, dominazione, sadismo, masochismo) dove le pratiche sessuali e -attenzione- relazionali, sono legate alla sottomissione e/o alla dominazione. Fuori dal contesto consensuale, si potrebbe facilmente parlare di violenza (sessuale e psicologica) ma i tanti estimatori assicurano che il piacere connesso al mondo BDSM è qualcosa di estremamente soddisfacente, inimmaginabilmente al di sopra di un qualsiasi effimero orgasmo.

Scendiamo nello specifico: il farting fa parte dell’ambito “ass worship” -ovvero l’adorazione del culo- dove troviamo il sottomesso letteralmente faccia a faccia con il deretano del partner dominante (risparmio ogni battuta, superflua). La flatulenza è uno sviluppo successivo della pratica. In rete si trovano un sacco di video -raccapriccianti- che mostrano, per lo più donne, alle prese con la faccia di qualche uomo apparentemente coinvolto e contento. Non è nel mio stile, quindi lungi da me giudicare o mostrarmi mentalmente bacchettone, però tutto questo mi ha fatto pensare.

La mia vuole essere una provocazione volutamente surrealista, ma la realtà non è così distante: noi (uso libero e reinterpretato del plurale maiestatis) non ci facciamo scrupoli a scoreggiare in faccia a qualcuno, a leccargli il culo o a farci usare come una latrina, ma quando poi si tratta di mettere da parte il corpo, e di porre la stessa spregiudicatezza nell’amministrazione dei sentimenti e dell’amore, mostrandoci per quello che siamo veramente, senza inibizioni e senza frasi di circostanza… diventiamo improvvisamente timidi, schivi, impacciati e tremendamente bigotti.

Autosufficienti a partire dal cuore

Mi sono domandato tante volte di cosa io abbia veramente bisogno; le risposte, raffazzonate qua e là, non mi hanno mai veramente convinto. Ce ne raccontiamo tante, e a volte a qualche cazzata finiamo pure per crederci davvero. Ho rovistato nella testa alla ricerca di un concetto in grado di darmi un poco di pace, ma niente. Ero pure disposto a credere a quelle massime dozzinali che riempiono le pagine dei libri che leggiamo in estate (e dei quali per il resto dell’anno ci dimentichiamo) ma non sono riuscito a trovare nulla che tacitasse le mie ansie.

Di cosa ho veramente bisogno? Per una volta, ho provato a concentrarmi sulla domanda: se la soluzione fosse proprio in quella parola? Il bisogno -ovvero la necessità- è quel qualcosa di irrinunciabile, condicio sine qua non per la felicità, o quanto meno viatico per il benessere dello spirito. Se è vero che nella vita mutiamo ciclicamente -e con noi le nostre esigenze- come si può trovare un equilibrio con qualcuno? Trascorro il tempo lavorando su me stesso, sull’immagine che gli altri percepiscono di me, sulla proiezione -il più delle volte pesantemente distorta- del mio IO.

Troppe volte ci dimentichiamo di pensare a cosa gli altri abbiano bisogno, finendo arrogantemente per pretendere che le necessità di chi amiamo corrispondano alle nostre.

Non avere bisogno di nessuno -essere autosufficienti a partire dal cuore- non preclude la possibilità di innamorarsi, ma forse apre tutte le porte: dimenticando ciò di cui presumiamo di aver bisogno, potremmo finalmente liberarci dai pensieri, uscire dalle gabbie e lasciare che ad amarci sia chi semplicemente ci fa sentire bene.