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Tag: romanticismo

Dagli orifizi agli orefici

Una volta fare del sesso al primo appuntamento era considerata una cosa sconveniente. C’era questa regola secondo la quale se ti interessava una persona, era meglio non andarci subito a letto. Per prudenza, per non dare un’idea sbagliata di te e delle tue intenzioni. La maggior parte delle volte la faccenda si risolveva probabilmente con una prevedibile, colossale, fregatura. Sì, perché se da una parte l’erotismo e la seduzione sono in buona percentuale fatti di attesa e fantasia, dall’altra, l’essere umano non può vivere di voli pindarici, e ha bisogno di certezze. Non esiste una reale connessione tra tempo, sesso e storie a lungo termine, ma chi desidera al proprio fianco una persona – e una soltanto – per buon senso, dovrebbe quanto prima accertarsi della qualità carnale della combinazione. Non per tutti ha la stessa importanza, no, certo.
Curiosa è sicuramente l’attitudine di alcuni che – innamoratissimi – dopo una tanto attesa notte di (auspicata ma non pervenuta) passione, si ritrovano nella merda, senza sapere bene come fare per archiviare il caso. Si può ritentare, ma qui non c’entra la bravura. Serve essere il giusto addendo in un’addizione dove il risultato non può essere un’incognita.

Lo definirei romanticismo postmoderno. Quella voglia di perderti negli occhi di chi hai di fronte, magari sfiorarsi quasi inavvertitamente per sentire l’elettricità che si genera. Silenzi concavi, vuoti come i nastri vergini su cui registravamo la musica, apparentemente sconnessa, ma che ancora oggi non comporremmo con un ordine diverso. E le mani, convesse, prominenti, sempre desiderose di afferrarsi, magari in un abbraccio o a testimonianza di una non-assenza.
Il silenzio, è erotismo. Lui e la sua mutevole natura, delicata, fragile. Da rompere con i sospiri, o magari da lasciare immacolato, o ancora da frantumare con parole inaspettate. E sono proprio le passioni consumate con inevitabile ingordigia, che tracciano i dettami di una nuova possibile relazione; con le schegge, i bordi taglienti e quella inconfutabile voglia di farlo di nuovo per vedere se ci si può avvicinare ancora di più.

Vale tutto (ma fino all’amore)

Non è facile la vita dei single poco più che trentenni. E in una città come Milano – dove se ti guardi attorno vedi per lo più persone impegnate a guardare se stesse – interpretare la realtà può risultare complesso. L’interpretazione, non certamente la realtà. La realtà è semplice, tutto sommato.
La fluidità degli zuccherosi film americani è pura finzione, e auspicando quella stessa chiarezza si finisce il più delle volte per mescolare carte già giocate: pochi cuori, tanti picche, qualche fiore, re o regine spaiati, e nessun jolly da giocare. L’asso nella manica è rappresentato dall’elasticità mentale di chi non si ferma disperatamente in cerca di un nome, o di un melenso confine entro il quale stare. Sì, perché le relazioni funzionano bene pure quando non hanno un’etichetta. In amore (o quello che è) non avere né casato né libretto di istruzioni rende le cose scivolose, capaci di mutare da giuste a sbagliate e viceversa, con sconcertante rapidità. Dunque, vale tutto.

Ci si erige a paladini della libertà, fino a quando ci si accorge che non si sa dove andare. Credo sia ridicolo frequentare persone nell’attesa che le cose diventino importanti. Tutto è importante, nel momento stesso in cui lo viviamo. Quando per qualcuno diventa difficile non pensare alla programmaticità di futuri fotocopia – scopiazzati dalle pagine di un libro, dai film di cui sopra o semplicemente spiando dalla finestra di casa propria – sarebbe bene ripensare ai vantaggi delle non-relazioni.
Bisognerebbe accanirsi sul presente così come ci si accanisce su quel futuro farcito all’inverosimile di aspettative. Che poi – tanto si sa – non arriva. E se arriva, non è mai come ce lo si aspettava.
Per fortuna. Altrimenti, sai che noia.

Sentimentalmente inefficace

Inefficacemente sentimentale, avevo messo da parte le smancerie, i manierismi del cuore e tutte quelle cose che – svelate – generalmente mettono in fuga chi frequenti nel giro di pochi istanti. Ma l’avevo fatto tanto tempo fa, crogiolandomi nella convinzione che certi approcci non cambiano, e che il romanticismo – per quanto desueto e assolutamente non necessario – fosse una luna piena, una testa vuota e un bicchiere di champagne bevuto a lume di candela. Più di recente, ma ancora piuttosto lontano da qualsiasi nuova certezza, mi sono ritrovato a riconsiderare la faccenda.
Che il romanticismo sia vivo, è una teoria ancora tutta da dimostrare, ma che i romantici siano morti pare invece un’assoluta certezza. Morti. O camuffati da improbabili poeti urbani, autori di aforismi virali ma non certamente vitali, spacciati sul web come moderne versioni di intramontabili classici che nessuno sentiva il bisogno di rivisitare.

Ridefinire il concetto di sentimentalismo sembra una sfida più avvincente, in un momento storico dove le persone più sono interessate, più si respingono, con macchiavellici escamotage atti a camuffare l’infatuazione, creando dunque nuovi codici di accopp(i)amento. Certo, pretendere che le cose siano esattamente come sembrano continua a essere pura fantascienza, se non per qualche impavido, folle, temerario dell’amore. E la comunicazione si lascia influenzare dagli asettici e fraintendibilissimi nuovi linguaggi.
Prepariamoci dunque alla trasposizione nella realtà delle emoticon, come risposta poco diretta a domande tutt’altro che indirette. Vedo già valanghe di mezzi sorrisi, espressioni corrucciate o lacrimucce poco serie, e ambigui ammiccamenti che non portano da nessuna parte.
Ma il cuore, come si fa?

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Non si può soffrire per la fine di storie mai cominciate

Che poi, a fare i romantici che camminano per strada con gli occhi rivolti al cielo, prima o poi qualche merda si finisce comunque per pestarla. Penso sia più uno stile di vita, che un’abitudine. Intendiamoci: ci sono voluti anni per conciliare razionalità e romanticismo, e non ho mai pensato si trattasse di una convivenza impossibile, ma a volte mi chiedo dove si collochi il confine tra nuovo romantico e il più semplicistico nuovo coglione.

Il mio profilo Linkedin, è appena stato chiuso. Non aveva ragione di continuare a esistere. Era nato giorni fa, con il solo obiettivo di far giungere le mie avances all’ennesima persona sbagliata: perfetta sulla carta ma con già un’altra storia. Sì, un po’ me ne vergogno. Ma sono uno di quelli che camminano guardando il cielo, e poi si ritrovano puntualmente nella merda. Fanculo il raziocinio, io ci provo sempre.

Non si può soffrire per la fine di storie mai cominciate.

Fanno volare i nostri aquiloni, ci portano in alto e poi tagliano la corda. Complimenti, lusinghe, insinuazioni sessuali e apprezzamenti sparsi dalla testa ai piedi che quasi hai paura ad accettare. Poi però si mettono con ragazzi castani, carini (senza esagerare), gestibili, che con la loro rassicurante mediocrità garantiscono uno stile di vita senza troppe sorprese e dalle poche pretese tutto sommato accettabili.

Beh, vaffanculo. Con il sorriso, s’intende.

Mi concedo questi primi giorni di settembre per un po’ di cazzate. Concedo un po’ di tempo anche a tutte quelle cose rimaste in sospeso con l’alibi dell’estate. Poi basta però. Sono uscito a comperare una bicicletta e sono tornato a casa a piedi, con un sacchetto pieno di scarpe. Io al mio antiquato romanticismo non rinuncio, e ho messo in conto che là fuori potrò anche pestare qualche merda, ma senza dubbio se dovesse capitare lo farò con stile.

 

L’eleganza dell’assenza

Chi non c’è, o meglio ancora chi non esiste, ci fornisce l’alibi perfetto per l’immobilità: del cuore, del corpo e dello spirito. Non possiamo pretendere di riuscire a trovare qualcuno fin quando continueremo a considerare “l’altro” come un’ancora di salvezza, elemento indispensabile per la felicità. L’errore è la visione strumentale del rapporto: grande amor proprio (o forse, un più semplicistico narcisismo) e poco amore per l’altra parte, destinata a essere non un fine ma bensì un mezzo, necessario per condurci a quella parvenza di serenità che altrimenti non sapremmo raggiungere.

È un’ovvietà, ma è così: è più difficile stare bene con se stessi che con qualcun altro. Se non sei sereno tu, come puoi impostare un rapporto a due (o a tre, o a quattro, o più universalmente con l’intera società che ci circonda) veramente sano? Non si può scaricare sulle persone con le quali stiamo l’impegnativa responsabilità del nostro “stare bene”.

La predilezione a rapportarsi con persone irrisolte, irraggiungibili o talvolta addirittura inesistenti (che potremmo anche far rientrare nel girone delle persone sbagliate) è un chiaro esempio del desiderio di sentirsi vivi. Se sei avvezzo alla sofferenza, è rassicurante trovartici in mezzo: ne conosci le dinamiche e muoverti in quel territorio costituisce qualcosa di spaventosamente familiare. Per questo molte persone -dopo essersi liberate di una situazione complessa- riescono a lasciarsi andare solo innanzi a un’altra situazione ancora più complessa e con una prospettiva decisamente poco rosea.

Settimana scorsa una persona mi ha detto: “tu non vuoi essere felice, altrimenti smetteresti di inseguire persone così problematiche e con le quali chiaramente non c’è futuro. Vuoi essere salvato e allo stesso tempo salvare, nell’illusione che chi ti piace possa improvvisamente cambiare grazie a te”. Il desiderio di onnipotenza è abbastanza lampante, e anche la ricerca di quella sofferenza che sa far sentire vivi più di ogni effimera felicità. Ho sempre chiamato tutto questo “fottutissimo romanticismo”.

Soli sì, ma con responsabilità.