andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: presente

Vale tutto (ma fino all’amore)

Non è facile la vita dei single poco più che trentenni. E in una città come Milano – dove se ti guardi attorno vedi per lo più persone impegnate a guardare se stesse – interpretare la realtà può risultare complesso. L’interpretazione, non certamente la realtà. La realtà è semplice, tutto sommato.
La fluidità degli zuccherosi film americani è pura finzione, e auspicando quella stessa chiarezza si finisce il più delle volte per mescolare carte già giocate: pochi cuori, tanti picche, qualche fiore, re o regine spaiati, e nessun jolly da giocare. L’asso nella manica è rappresentato dall’elasticità mentale di chi non si ferma disperatamente in cerca di un nome, o di un melenso confine entro il quale stare. Sì, perché le relazioni funzionano bene pure quando non hanno un’etichetta. In amore (o quello che è) non avere né casato né libretto di istruzioni rende le cose scivolose, capaci di mutare da giuste a sbagliate e viceversa, con sconcertante rapidità. Dunque, vale tutto.

Ci si erige a paladini della libertà, fino a quando ci si accorge che non si sa dove andare. Credo sia ridicolo frequentare persone nell’attesa che le cose diventino importanti. Tutto è importante, nel momento stesso in cui lo viviamo. Quando per qualcuno diventa difficile non pensare alla programmaticità di futuri fotocopia – scopiazzati dalle pagine di un libro, dai film di cui sopra o semplicemente spiando dalla finestra di casa propria – sarebbe bene ripensare ai vantaggi delle non-relazioni.
Bisognerebbe accanirsi sul presente così come ci si accanisce su quel futuro farcito all’inverosimile di aspettative. Che poi – tanto si sa – non arriva. E se arriva, non è mai come ce lo si aspettava.
Per fortuna. Altrimenti, sai che noia.

L’importanza delle cose che amiamo fare

Non potevo fare a meno di domandarmi se fosse stata una buona idea mostrare (a prescindere) tutto quell’entusiasmo con i ragazzi del trucco & parrucco, tant’è che nervosamente cercavo una qualsiasi superficie riflettente per guardare ancora una volta i capelli, prima della trionfale uscita da “ospite fuori gara” sul palco del Gala di Castrocaro. Mentre respiravo la tensione degli altri – riportandomi inevitabilmente a più di dieci anni prima – gustavo con il sorriso la mia serenità, frutto di un miscuglio di esperienze e situazioni troppo complesso per essere sintetizzato in una frase.

Tra un ospite e l’altro, c’erano dei ragazzi piuttosto bravi a contendersi l’unico posto rimasto per la finale. Lo facevano con determinazione, ma senza accanimento. Voci acerbe ma precise, superficiali ma indiziarie di qualcosa d’altro ancora inconsapevolmente nascosto. Una generazione diversa. Io invece ascoltavo le divas: Patti LaBelle, Aretha Franklin, Whitney Houston… e a diciotto anni la mia voce aveva assorbito talmente tanto da risultare pregna di fin troppa personalità. Esageravo sempre. E ci credo: avevo un tale casino dentro. E pure fuori, a pensarci.

Basito dalle domande decisamente poco spontanee del presentatore, sorridevo, ma continuando in realtà a chiedermi come fosse possibile che lui – vestito di tutto punto – non sudasse minimamente, mentre io – quasi nudo – sentissi secondo dopo secondo il corpo sciogliersi sotto i riflettori. Non c’è stato tempo per preparare un pezzo nuovo, così, mentre passavo all’inciso principale di Dopo Di Te, lasciavo che gli archi sintetizzati mi riportassero con un crescendo fatto di mancanze a emozioni che ora non chiedono più di essere urlate. Ci sono canzoni che scrivi per mero bisogno, buttandoci dentro tutto te stesso, ma che solo quando te ne allontani comprendi fino in fondo, restituendo loro l’intensità esatta di cui hanno bisogno per risplendere.

Mentre intonavo un gospel, mi sembrava di aver fatto un incantesimo alla platea. Con oscillazioni vocali quasi orgasmiche improvvisate sul coro del brano, sentivo tutti gli occhi puntati su di me. Mi sembrava di poter sentire il rumore delle labbra mentre si schiudevano liberando i sospiri. Il palco ti isola, ti eleva, ti espone e in un certo senso ti protegge: è una sorta di amante geloso, possessivo, ma al tempo stesso permissivo e provocatore. Ed è stato più o meno in quella manciata di secondi prima delle ultime frasi che mi sono reso conto di quanto mi sentissi bene e appagato.

Non dovremmo mai dimenticare cosa ci fa stare bene. Dovremmo smetterla di essere noiosi e lamentosi, cercando di ridere di più, senza pensare alle conseguenze e senza dar peso a quegli “ipotetici futuri” che generalmente non prendono nemmeno forma, se non come detrattori di un presente che, consumato, comunque non torna.

Un ipotetico settembre

Mentre guidavo verso sud, vedevo Milano alle mie spalle diventare sempre più piccola. Con Last Goodbye in sottofondo, sembrava tutto più carico di significato di quanto non fosse, ma allontanarmi da tutto per un po’ – da solo – era un piacere che avevo terribilmente voglia di concedermi. Senza programmi precisi, senza una data di rientro, senza troppa roba nella borsa e senza tutte quelle cose che un tempo mi sarebbero servite per mettere a tacere l’ansia.

Firenze è sempre bella, così come è sempre bello perdersi tra le vie del centro la mattina, quando i turisti sono impegnati a riversarsi verso le sculture di Michelangelo o la fontana del Nettuno in piazza della Signoria. Temperatura perfetta, caffè bollente, una moneta per il sassofonista che suona il tema de La Bella & La Bestia e non manca nulla. Così finisco per ritrovarmi a passare la notte nell’appartamento di quattro studenti che praticamente neanche conosco; dovendo rendere conto solo a me stesso mando a fanculo il perbenismo, la puzza sotto al naso, tutto il resto e chiudo gli occhi.

Per un attimo mi sono tornate in mente le cose lasciate a metà, in attesa di quell’ipotetico settembre che potrebbe poi essere diverso dalle aspettative. Ma tutto sommato cosa importa? Le nuvole dell’Umbria sembrano più grandi, raggruppate alla stessa altezza, quasi a voler incorniciare l’autostrada. Camminare a notte fonda per le stradine di pietra attorno alla Rocca, nella parte alta di Spoleto, è meraviglioso. Mi fermo su una panchina a guardare il resto della città. Da quassù sembra ancora più bella. Salgo le scale di pietra per arrivare all’ingresso dell’appartamento, gustandomi la solitudine: da chiassosa si fa sempre più quieta, fondendosi dapprima con il rumore dei miei passi e poi finalmente con il silenzio.

Riapro gli occhi ed è già mattina. Sono riuscito a organizzare anche qui un pranzo di tutto rispetto per i miei amici. Mentre tagliavo le verdure della stessa dimensione – tra un po’ di tartufo nero e vino rosso – pensavo che se avessimo preparato la crostata di ricotta e cioccolato un giorno prima sarebbe stato meglio. Poi penso che sarà ottima per la colazione di domani. Poi arriva domani e non ne è avanzata nemmeno una fetta.

Riparto, ma lascio indietro i pensieri troppo articolati, la voglia di leggere tra le righe cose che non ci sono, le critiche, le lacrime inutili, le paure infondate e quel fare attendista con cui spesso ci si rivolge al futuro. Mi porto via i sorrisi, la voglia di divertirmi e basta, la sincerità di chi non fa programmi e la genuinità di chi non segue tattiche. Tra nuvole basse, stradine silenziose, il sapore della libertà e quello delle crostate ancora tiepide ma non ho voglia di aspettare, c’è tutto ciò che mi serve per essere felice.

Spoleto

Tra l’orgoglio e la paura (storie in sospeso)

Terre di confine, non-luoghi sospesi tra passato e futuro, e certamente non appartenenti al presente. Senza né un inizio né una fine. Silenziose messaggere del nulla che non hanno nome e non hanno meta. Tutt’altro che inutili, senza dubbio non indispensabili. Le storie in sospeso, hanno la capacità di bloccarci tra le proiezioni di un futuro utopico e un passato troppo facilmente manipolabile.

Siamo concentrati sulle grandi storie d’amore finite male, sugli epiloghi infelici e sui capitoli disastrosamente chiusi e archiviati; ma tra le pieghe del sentire, e tra le piaghe del pensiero -le storie in sospeso- condizionano e influenzano la vita reale attraverso il loro semplice non esistere. È un concetto importante, perché origina da una mancanza (l’astratto) e si riflette sulla vita (il concreto).

La grande e conclamata relazione chiusa bruscamente o il matrimonio esauritosi teatralmente, rubano facilmente la scena a storielle apparentemente di poco conto; eppure c’è una piccola quantità di incontri che risulta difficile togliersi dalla testa. Rappresenta la speranza tradita, la semplicità e l’aspirazione a una quotidianità migliore; perché -per quanto la si provi a nascondere dietro al pessimismo e all’inquietudine- una parte di noi sopravvive all’idea che prima o poi le cose possano cambiare in meglio.

Cosa ci impedisce di riprendere una storia in sospeso?

Le storie in sospeso ci spaccano in due, lasciandoci tra l’orgoglio e la paura. L’orgoglio è il vanto dei razionali, e di tutti quelli che hanno la lungimiranza di lasciar perdere un amore impossibile. La paura è l’altra faccia: è meglio cristallizzare (e idealizzare) una parentesi, o insistere, provando a recuperare un rapporto con il rischio di una porta chiusa? L’eventuale frustrazione, ci farebbe sprofondare ancora di più nella malinconia o sarebbe quello schiaffo indispensabile per ripartire? Sto cercando la risposta da mesi, confidando in qualche inequivocabile segno del destino (o di qualcun altro).

Se non hanno mai preso vita, non possono dunque morire. Le storie in sospeso non fanno rumore, e sono immortali.

2) Sbagliando si impala

I miei errori mi hanno insegnato unicamente come essere perpetrati. O quasi. Chi ha detto che sbagliando si impara? Si impara solo quando si vuole imparare e quando non ci si crede già perfetti. A volte mi guardo indietro e poi mi guardo avanti e non capisco più quale sia il passato e quale il futuro. Poi capisco che il futuro è quello sfocato e che mi fa venire voglia di andare avanti (fosse anche solo per vedere come va a finire).