andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: passato

Debutto oggi in radio con il mio primo singolo “Dopo Di Te”

Cari amici,

Esce oggi in radio “Dopo Di Te“, che oltre a essere la traccia d’apertura, è il singolo scelto per il lancio del mio primo album. Una power ballad caratterizzata da un vestito dance ma dai contenuti tutt’altro che spensierati, binomio poi riportato nel videoclip (diretto dalla giovane regista Giovanna Tralli) che ne accompagna l’uscita. Racconta della fine di una storia, e di quanto sia importante imparare a chiudere certi capitoli.

Si tratta di una canzone cresciuta e maturata con me, in questi anni. Sentivo di doverle ancora qualcosa. E «» non è più solo una persona, ma un concetto più universale: si estende oltre le mie vicissitudini, arrivando nelle vite degli altri, e incarnando quel passato dal quale tutti dovremmo imparare a distogliere lo sguardo, perché – se glielo permetti – la vita ha sempre qualcosa di meraviglioso da offrirti; basta guardare nella direzione giusta.

Nel 2012, proprio con una prima versione di “Dopo Di Te“, sono stato premiato nell’ambito della manifestazione Area Sanremo come uno degli otto migliori artisti emergenti italiani.

Sempre da oggi, potrete preordinare “Dopo Di Te ” e l’intero album “Nella Stanza” su iTunes seguendo questo collegamento: https://itunes.apple.com/it/album/nella-stanza/1386081454 mentre dal 15 Giugno – data dell’uscita ufficiale – sarà disponibile anche su tutti gli altri webstore (Amazon, Google Play, etc.) e ovviamente su Spotify (aggiungetemi alle vostre playlist)!

A breve scriverò riguardo l’anteprima in esclusiva del videoclip e vi racconterò nel dettaglio – un po’ con calma come piace a me – delle tracce che compongono questo primo sudatissimo lavoro discografico. Mi sento particolarmente legato ai lettori di questo blog: è stata una piattaforma importante per me, e ho incontrato qui persone dalla splendida sensibilità. Spero sosterrete le mie parole in musica!

L’ufficio stampa ha diffuso un po’ ovunque il comunicato sull’uscita del brano, potete – ad esempio – trovarlo qui: http://meiweb.it/2018/05/24/in-radio-e-in-pre-order-dopo-di-te-il-singolo-di-debutto-di-andrea-devis/ 

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Comete come te

Ce ne sono state, di comete come te. Luminose, evanescenti, probabilmente inutili.
Milano frizza, all’ora di pranzo. Il solito viavai, i tavolini sovraffollati di qualche bar, tante chiacchiere ad alto volume ma a basso contenuto. In proporzione variabile: il rumore delle tazzine del caffè, lo spiffero della porta che si apre, cose così.

Passano gli anni e continuo a gustarmi la solitudine. Ho imparato ad apprezzarla quando ero molto piccolo, e l’ho custodita gelosamente anche quando condividevo la quotidianità con un altro uomo. È foriera di tante cose, ma chi ne ha paura la considera solo un timore da celare, il sintomo di qualcosa da cui è meglio guardarsi bene.

Osservo, seduto rivolto verso la vetrina, ripensando senza rancore, senza pentimento, con un leggero retrogusto di nostalgia. Una vita fa, che poi era ieri. Beata solitudo, sola beatitudo. Per quanto abitudinario, non ho mai smesso di aver voglia di fare la mia conoscenza. Nella rassicurante linearità di una vita fatta di certezze, e di un margine di approssimazione che mi sono voluto concedere (perché poi non si sa mai).

Ce ne sono state, di comete come te. Gente lasciva, che lascia una scia, generalmente generata per disperdersi nell’ambiente dopo l’uso. E qualche volta ci provo anche, a travestirmi col cinismo. Una manciata di melensi e prevedibili cliché mi riporta alla mia natura. Sguardi, magari addirittura fiori, parole dette al momento giusto e un difficilmente collocabile romanticismo post moderno.

Meno male. Forse la solitudine ci insegna a non tradirci mai, a restare fedeli ai desideri. Nessuna contaminazione. Nessun patriottismo psicologico, per rivendicare l’appartenenza a una casta invidiabile invisibile inafferrabile inutile.

Ce ne saranno anche state, di comete come me, tenute a debita distanza da tutto. Con l’ambizione di potersi definire speciali e pronte a sacrificare quasi qualsiasi cosa per far parte della quotidianità di chi non lo è affatto.

Sentimentalmente impotenti (trascurabili mancanze)

È davvero necessario avere qualcosa in comune con chi ci piace, per poter avviare una nuova relazione? Forse è più sensato pensare che ad avere qualcosa in comune tra loro debbano essere le persone che ci piacciono. Se fossero invece le mancanze a fare la differenza? Inestirpabile, l’ostinazione di chi continua a cercare le persone giuste nei luoghi sbagliati (o nei corpi sbagliati). Proviamo a prendere le distanze dal passato, ma poi ricadiamo negli errori di sempre, provando ad affiancarci a un’altra persona – giusta e sbagliata – esattamente come quelle che ci sono state prima. Siamo la somma delle nostre esperienze, successi e fallimenti. Ci piacciono le persone con le quali soffriamo solo per avere qualcuno cui dare la colpa?

Ci ho provato, mille volte e più, a cambiare rotta, ad aggiustare il tiro, a ridimensionare le richieste, senza mai scendere veramente a compromessi; perché la felicità è una sola e non è negoziabile. Con certe persone si genera una strana energia. Frizzante, inebriante, al tempo stesso evanescente. Se ne diventa dipendenti. Si baratta la lucidità per l’emozione. Innovativo sport estremo – ma già démodé – e alla portata di tutti.

Perché sentiamo la necessità di trovare un colpevole contro cui accanirci quando si tratta di esaminare le nostre relazioni? Temiamo un rimprovero? Un monito per le inadempienze? Non ci perdoniamo mai nulla, ma spesso in amore – così come non esistono vincitori e perdenti – non esistono colpevoli contro cui scagliarsi. Si rimane soli, con il tempo a fare da giudice, così inefficacemente neutrale e così inavvertitamente spietato.

Ad accomunare le persone sbagliate – puntualmente fuori luogo – c’è il loro essere inappropriate, il loro essere sentimentalmente impotenti.

E ci siamo noi.

L’importanza delle cose che amiamo fare

Non potevo fare a meno di domandarmi se fosse stata una buona idea mostrare (a prescindere) tutto quell’entusiasmo con i ragazzi del trucco & parrucco, tant’è che nervosamente cercavo una qualsiasi superficie riflettente per guardare ancora una volta i capelli, prima della trionfale uscita da “ospite fuori gara” sul palco del Gala di Castrocaro. Mentre respiravo la tensione degli altri – riportandomi inevitabilmente a più di dieci anni prima – gustavo con il sorriso la mia serenità, frutto di un miscuglio di esperienze e situazioni troppo complesso per essere sintetizzato in una frase.

Tra un ospite e l’altro, c’erano dei ragazzi piuttosto bravi a contendersi l’unico posto rimasto per la finale. Lo facevano con determinazione, ma senza accanimento. Voci acerbe ma precise, superficiali ma indiziarie di qualcosa d’altro ancora inconsapevolmente nascosto. Una generazione diversa. Io invece ascoltavo le divas: Patti LaBelle, Aretha Franklin, Whitney Houston… e a diciotto anni la mia voce aveva assorbito talmente tanto da risultare pregna di fin troppa personalità. Esageravo sempre. E ci credo: avevo un tale casino dentro. E pure fuori, a pensarci.

Basito dalle domande decisamente poco spontanee del presentatore, sorridevo, ma continuando in realtà a chiedermi come fosse possibile che lui – vestito di tutto punto – non sudasse minimamente, mentre io – quasi nudo – sentissi secondo dopo secondo il corpo sciogliersi sotto i riflettori. Non c’è stato tempo per preparare un pezzo nuovo, così, mentre passavo all’inciso principale di Dopo Di Te, lasciavo che gli archi sintetizzati mi riportassero con un crescendo fatto di mancanze a emozioni che ora non chiedono più di essere urlate. Ci sono canzoni che scrivi per mero bisogno, buttandoci dentro tutto te stesso, ma che solo quando te ne allontani comprendi fino in fondo, restituendo loro l’intensità esatta di cui hanno bisogno per risplendere.

Mentre intonavo un gospel, mi sembrava di aver fatto un incantesimo alla platea. Con oscillazioni vocali quasi orgasmiche improvvisate sul coro del brano, sentivo tutti gli occhi puntati su di me. Mi sembrava di poter sentire il rumore delle labbra mentre si schiudevano liberando i sospiri. Il palco ti isola, ti eleva, ti espone e in un certo senso ti protegge: è una sorta di amante geloso, possessivo, ma al tempo stesso permissivo e provocatore. Ed è stato più o meno in quella manciata di secondi prima delle ultime frasi che mi sono reso conto di quanto mi sentissi bene e appagato.

Non dovremmo mai dimenticare cosa ci fa stare bene. Dovremmo smetterla di essere noiosi e lamentosi, cercando di ridere di più, senza pensare alle conseguenze e senza dar peso a quegli “ipotetici futuri” che generalmente non prendono nemmeno forma, se non come detrattori di un presente che, consumato, comunque non torna.

Le parole allontanate

L’asfalto vomita il caldo in questa domenica di ritrovato bollore, e mentre i lampioni si accendono ai margini della strada, Milano ingoia i miei passi. Penso alle parole allontanate, quelle capaci di raccontare chi siamo senza troppe pretese. Penso alle parole mai pronunciate, per paura di renderle realtà. Penso alle conquiste, alle frasi dette piano per non far sentire il cuore. Discorsi leggeri, che volano via insieme alle poche foglie dimenticate da un autunno già trascorso.

Le parole allontanate violentano la mente e stuprano i pensieri. Tornano – arroganti – con la pretesa di essere scritte o pronunciate, anche con un filo di voce, anche quando è notte. Completano melodie rimaste sospese sul rigo di qualche pentagramma. Sfuggono a ogni metrica. Tormentano, assillano, inseguono, creano nodi tra persone e circostanze. Le parole allontanate ci insegnano a farci abitare. Disorientano, spingono la vita al confine tra desiderio e ambizione. Riflettono aspirazioni e incarnano incertezze legittime.

Mentre la piazza si popola di ombre quasi familiari, continuo a camminare da solo osservando l’orizzonte – pensando ad altri luoghi – ma senza né la voglia né il bisogno di scappare davvero.

Le parole allontanate ci avvicinano.