andreadevis

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Tag: palco

L’antipatica questione della cena fuori

Il palco questa sera era distante. Più distante del solito, quasi avvolto dalla nebbia. Nonostante la prima fila, mi sentivo altrove. Ho bevuto con parsimonia il mio drink, assicurandomi un fondo sufficiente a garantire qualche sorso per i momenti di imbarazzo. Ma palco è solo un sinonimo di vita, e non importa in quale fila tu sia: se non ci sei sopra, con l’occhio di bue puntato su di te, non sei nel posto giusto.

Le relazioni sono un po’ come dei palcoscenici, e quando qualcuno ti vuole al suo fianco – ma confinato nell’ombra di un dietro le quinte qualsiasi, magari con altre comparse – non ne vale mai la pena. Nemmeno quando coscienziosamente ti imbrogli raccontandoti che da lì a poco ci sarà la tua entrata in scena da protagonista assoluto: trionfale e indimenticabile.

C’è poi l’antipatica questione della cena fuori, la mia moderna cartina tornasole per i rapporti. Basta solo menzionarla lontanamente, ed ecco che si assiste a misteriose sparizioni che neanche a X-Files negli anni novanta. A volte è capitato che fosse qualcun altro a ventilarla, millantando luoghi e ristoranti dalla discutibile nomea – non vanno bene per te – quando poi mi sarebbe bastata una serata a guardarsi negli occhi davanti a un bicchiere di vino bianco e a un piatto di pasta rossa.

Non resto certamente a digiuno, se non da quelle attenzioni che per qualcuno potrebbero essere considerate meramente accessorie. Ma non per me, non per noi soldati dell’amore.

E pensare che mi troverebbero proprio lì: tra il bicchiere di vino, la pasta, la crostata al cioccolato.

Sorridente, affianco alla felicità.

L’importanza delle cose che amiamo fare

Non potevo fare a meno di domandarmi se fosse stata una buona idea mostrare (a prescindere) tutto quell’entusiasmo con i ragazzi del trucco & parrucco, tant’è che nervosamente cercavo una qualsiasi superficie riflettente per guardare ancora una volta i capelli, prima della trionfale uscita da “ospite fuori gara” sul palco del Gala di Castrocaro. Mentre respiravo la tensione degli altri – riportandomi inevitabilmente a più di dieci anni prima – gustavo con il sorriso la mia serenità, frutto di un miscuglio di esperienze e situazioni troppo complesso per essere sintetizzato in una frase.

Tra un ospite e l’altro, c’erano dei ragazzi piuttosto bravi a contendersi l’unico posto rimasto per la finale. Lo facevano con determinazione, ma senza accanimento. Voci acerbe ma precise, superficiali ma indiziarie di qualcosa d’altro ancora inconsapevolmente nascosto. Una generazione diversa. Io invece ascoltavo le divas: Patti LaBelle, Aretha Franklin, Whitney Houston… e a diciotto anni la mia voce aveva assorbito talmente tanto da risultare pregna di fin troppa personalità. Esageravo sempre. E ci credo: avevo un tale casino dentro. E pure fuori, a pensarci.

Basito dalle domande decisamente poco spontanee del presentatore, sorridevo, ma continuando in realtà a chiedermi come fosse possibile che lui – vestito di tutto punto – non sudasse minimamente, mentre io – quasi nudo – sentissi secondo dopo secondo il corpo sciogliersi sotto i riflettori. Non c’è stato tempo per preparare un pezzo nuovo, così, mentre passavo all’inciso principale di Dopo Di Te, lasciavo che gli archi sintetizzati mi riportassero con un crescendo fatto di mancanze a emozioni che ora non chiedono più di essere urlate. Ci sono canzoni che scrivi per mero bisogno, buttandoci dentro tutto te stesso, ma che solo quando te ne allontani comprendi fino in fondo, restituendo loro l’intensità esatta di cui hanno bisogno per risplendere.

Mentre intonavo un gospel, mi sembrava di aver fatto un incantesimo alla platea. Con oscillazioni vocali quasi orgasmiche improvvisate sul coro del brano, sentivo tutti gli occhi puntati su di me. Mi sembrava di poter sentire il rumore delle labbra mentre si schiudevano liberando i sospiri. Il palco ti isola, ti eleva, ti espone e in un certo senso ti protegge: è una sorta di amante geloso, possessivo, ma al tempo stesso permissivo e provocatore. Ed è stato più o meno in quella manciata di secondi prima delle ultime frasi che mi sono reso conto di quanto mi sentissi bene e appagato.

Non dovremmo mai dimenticare cosa ci fa stare bene. Dovremmo smetterla di essere noiosi e lamentosi, cercando di ridere di più, senza pensare alle conseguenze e senza dar peso a quegli “ipotetici futuri” che generalmente non prendono nemmeno forma, se non come detrattori di un presente che, consumato, comunque non torna.