andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: notte

Dagli orifizi agli orefici

Una volta fare del sesso al primo appuntamento era considerata una cosa sconveniente. C’era questa regola secondo la quale se ti interessava una persona, era meglio non andarci subito a letto. Per prudenza, per non dare un’idea sbagliata di te e delle tue intenzioni. La maggior parte delle volte la faccenda si risolveva probabilmente con una prevedibile, colossale, fregatura. Sì, perché se da una parte l’erotismo e la seduzione sono in buona percentuale fatti di attesa e fantasia, dall’altra, l’essere umano non può vivere di voli pindarici, e ha bisogno di certezze. Non esiste una reale connessione tra tempo, sesso e storie a lungo termine, ma chi desidera al proprio fianco una persona – e una soltanto – per buon senso, dovrebbe quanto prima accertarsi della qualità carnale della combinazione. Non per tutti ha la stessa importanza, no, certo.
Curiosa è sicuramente l’attitudine di alcuni che – innamoratissimi – dopo una tanto attesa notte di (auspicata ma non pervenuta) passione, si ritrovano nella merda, senza sapere bene come fare per archiviare il caso. Si può ritentare, ma qui non c’entra la bravura. Serve essere il giusto addendo in un’addizione dove il risultato non può essere un’incognita.

Lo definirei romanticismo postmoderno. Quella voglia di perderti negli occhi di chi hai di fronte, magari sfiorarsi quasi inavvertitamente per sentire l’elettricità che si genera. Silenzi concavi, vuoti come i nastri vergini su cui registravamo la musica, apparentemente sconnessa, ma che ancora oggi non comporremmo con un ordine diverso. E le mani, convesse, prominenti, sempre desiderose di afferrarsi, magari in un abbraccio o a testimonianza di una non-assenza.
Il silenzio, è erotismo. Lui e la sua mutevole natura, delicata, fragile. Da rompere con i sospiri, o magari da lasciare immacolato, o ancora da frantumare con parole inaspettate. E sono proprio le passioni consumate con inevitabile ingordigia, che tracciano i dettami di una nuova possibile relazione; con le schegge, i bordi taglienti e quella inconfutabile voglia di farlo di nuovo per vedere se ci si può avvicinare ancora di più.

Tre secondi

Ieri notte. Milano irriconoscibile. Poteva essere una qualsiasi altra città. Ho fatto su e giù per il viale almeno un paio di volte, prima di rendermi conto che lo stavo percorrendo nella direzione sbagliata. Il corpo mi spingeva altrove, lontano.

E poi l’ansia, la paura, le domande fatte senza sapere perché, i piedi che non trovano più il terreno, le mani che si riempiono e le teste che si svuotano. In ginocchio, entrambi, dopo sguardi repentini impossibili da domare, gli occhi sono caduti negli occhi. Per tre secondi, una possessione. Gassosa, evanescente, decisamente impalpabile. Felice, ne porto gelosamente addosso lo strascico.

Ho camminato fino alla mia auto. I ristoranti con le saracinesche abbassate ma con le luci ancora accese. La coppia davanti al portone. Il taxi fermo in mezzo al viale. La puttana in fondo alla strada, sorride da sola. Il cane senza guinzaglio. La stazione deserta.

Tre secondi, L’orgasmo del cuore.

 

Occhi neri

Se il temporale di ieri pomeriggio non avesse lasciato il vento a testimonianza del suo passaggio, Milano sarebbe stata perfetta. Accade una manciata di volte l’anno: non fa né troppo freddo né troppo caldo, e sei vestito esattamente nel modo giusto.

Camminiamo lungo il profilo di pietra che gli operai hanno fissato ai lati della strada, tenendoci in bilico per evitare di finire nel fango della carreggiata, ancora incompiuta. Sembrano così lontani i tempi in cui mi torturavo con l’immagine di qualcuno che conoscevo appena, influenzato dal riverbero delle cose che aveva voluto lasciar trapelare di sé. Lontani, ma al tempo stesso vicini. Un connubio di elementi, nozioni acquisite per osmosi e lacrime piante con consapevolezza e misura come mai si dovrebbe fare.

Sorprendente alchimia di stati d’animo e predisposizione a lasciar accadere le cose che si desiderano. I soliti bicchieri, un vino particolarmente dorato. Le giacche abbandonate sulla vassily all’ingresso. Un sorriso sincero che mi ero dimenticato di avere; forse era finito tra le pagine dei miei scritti o in mezzo ai cuscini del divano. Parliamo, ci guardiamo, ci sfuggiamo, ci guardiamo di nuovo. Mescoliamo al mio italiano un po’ di inglese, poi mi sforzo inutilmente con il suo spagnolo. Ridiamo. Ascoltiamo la musica. Si protrae verso di me: penso alle labbra rosa, agli occhi neri e alla voglia di lasciarmi sorprendere.

Mi lascio sorprendere.

Credo siano le tre e mezza o forse le quattro. Non ha detto niente, e si è addormentato a fianco a me, come se sapesse già da quale parte stare. Gli ho portato dell’acqua e poi ho provato a chiudere gli occhi anche io. Non riesco a dormire veramente, ma la felicità di non essere solo è il riposante contraltare per tante altre notti. Domani soffrirò la mancanza della sua presenza, probabilmente. Sogni inquieti, paure represse che si manifestano nell’inconscio. Un risveglio delicato e ancora piacere. Ci osserviamo nuovamente. Non riesco a vedere oltre il nero della sua iride. Il miei occhi sono più chiari, e mi sembra di non poter nascondere nulla. Filtro la luce e lascio libere le parole. Ci sorprendiamo del perfetto combaciare di corpi e desideri. Ci deliziamo con il contrasto dei nostri colori e delle forme.

L’aereo starà atterrando probabilmente in questo momento. È durato tutto troppo poco. Non penso di voler lasciar perdere. Chissà cosa c’è dietro quell’iride nera come asfalto bagnato.

Amori succedanei e finali alternativi

Ho fatto una cazzata. Eh sì, un’altra. L’ennesima. Viene spontaneo pensarlo. Se ne sentiva la mancanza, in questo periodo carico di inaspettata energia positiva e creatività. Si riprende dunque lo slalom tra ricordi appannati, passioni indecifrabili e utopie varie, mentre la condensa degli amori inespressi appanna gli occhi. Fanculo la melanconia: io sono l’ambasciatore delle lacrime sospese, e delle notti passate a dialogare con il soffitto abbracciando il cuscino. Ci innamoriamo delle persone che non esistono, e quando ce ne accorgiamo, viviamo la realtà delle cose come un tradimento. Ma la colpa è nostra. La loro unica negligenza è stata lasciarci credere che fossero così come le avevamo proiettate nella nostra mente.

Ieri sera sono andato a guardare il suo profilo sul social network. Pessima idea. Non l’ho mai fatto per tutto questo tempo, cosa mi sia saltato in mente proprio ieri sera, mi sfugge. Forse un’indigestione di minchiate, o il forfait improvviso degli ultimi neuroni, che stanchi, hanno pensato bene di non provare nemmeno più a far resistenza. Come possa una semplice fotografia provocare un ridicolo pianto, con contemporaneo (fortissimo) conato di vomito, è attualmente al vaglio di un attento gruppo di esperti in follia umana.

Lo scenario è poi sempre lo stesso: tutti lì a puntarmi il dito contro. È colpa mia: se mi ammalo, se non mi innamoro, se trovo solo persone sbagliate. Me lo dicono i miei amici, me lo dice il mio medico, la mia psicanalista, mia madre, e me lo ha detto addirittura uno sciamano. Io faccio quello risentito rispondendo ma no, e poi alla fine combino qualche stronzata tipo quella di ieri sera. Non sono più un adolescente, e c’è un’età per ogni cosa. Come quando senti dire frasi tipo ho chiuso da poco una storia importante e ora voglio solo divertirmi e pensi possa esserci un senso, ma se ci rifletti capisci che pure quelle sono tutte stronzate. Sarebbe bello avere a disposizione dei finali alternativi, come nei contenuti speciali di certi DVD, dove il film puoi chiuderlo un po’ come ti pare. Ma non si può.

È tutto tempo perso, quello passato nel tentativo di rimuovere dalla memoria del cuore una relazione che ci ha annientati. Non c’è nulla da rimuovere e non c’è nulla che sia rimovibile davvero. La soluzione potrebbe essere un amore succedaneo: un nuovo sentimento, intenso e forte, che impegna la mente e il corpo. Non si parla di rimpiazzi posticci, ma di maturità e coraggio.

Un amore succedaneo può permetterci di ritrovare noi stessi. E magari, anche qualcun altro.

Ho incontrato Tiziano Ferro e sono diventato infelice

A Milano, la zona di Porta Romana non l’ho mai vissuta un granché, ma mi piace, più o meno da sempre. Stasera sono uscito per prendere una boccata d’aria, e perché restare chiuso in casa a deprimermi non si sembrava una grande idea. Sono una persona solitaria, o forse semplicemente sola. Se rimango troppo in compagnia del silenzio e dei pensieri, rischio la pazzia. Un po’ di pazzia credo sia ormai irreversibilmente insita in me, e quindi ho deciso di accettare un invito a cena un po’ improvvisato ma tutto sommato più divertente delle mie paranoie.

Ho dato un’occhiata al menu, lunghissimo. Con la coda dell’occhio ho visto anche l’ex barman del Finger’s (che tra l’altro sta proprio lì dietro): chissà se fa ancora quel cocktail a base di sake e maracuja. Ho ordinato troppa roba. Ho pensato che un po’ di vino sarebbe stato necessario, ma se chi ho davanti non ne beve, lascio perdere. Mi rendo conto che i pensieri mi hanno seguito. Bastardi. Si parla di relazioni, persone, tradimenti… le mie opinioni sono ormai autocitazioni che includono sempre “le persone sbagliate” e cose del genere. Sono diventato quasi noioso per me stesso, ma se uno non mi conosce, posso risultare anche interessante -a volte forse addirittura intelligente- ma è tutta una farsa.

Ho camminato fino all’uscita convinto che appesantiti dal cibo i miei pensieri non sarebbero tornati a galla per un po’.

Più o meno vicino alla porta, l’ho visto seduto al tavolo che mangiava. Sorridente, carino, a suo agio, in mezzo ad almeno altre cinque o sei persone. Sembravano amici o qualcosa del genere, è difficile dirlo. Sembrava comunque sereno. Tiziano Ferro stasera mi ha riportato alla realtà. Mi ha reso infelice perché già prima non è che fossi l’emblema della gioia. In un certo senso ha fatto riaffiorare i pensieri, mi ha fatto digerire. Abbiamo più o meno la stessa età (cazzate: io sono decisamente più giovane), scriviamo e cantiamo, conosciamo la malinconia. Lui pare però più sereno e certamente ha più successo; io mi domando che ci faccia lì in mezzo a gente che neanche conosco e soprattutto mi chiedo come mai è da così tanto che non produco qualcosa che mi renda fiero di me, senza riserve.

Godetevi la vostra felicità, ho pensato. Così me ne sono uscito, lasciandomi inghiottire dal venerdì sera di una Milano inaspettatamente quasi silenziosa.