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La consapevolezza di chi non torna

È un martedì mattina travestito da domenica di primavera, con il sole, la strada deserta, quindici gradi e tutto il resto. Mi immergo fino a pochi millimetri dal naso nell’acqua calda della vasca e spio tra le persiane della finestra che da sulla via principale. Rubo un’immagine al mio passato, quello stesso passato che cerco di dimenticare ma nel quale finisco per crogiolarmici sempre. Che puttane, le lacrime! Ho scoperto che però puoi affogarle nell’acqua della vasca senza grandi sforzi. Bisogna solo immedesimarsi un po’ di più negli altri, ed essere meno egocentrici. Se qualcuno non torna, è perché non vuole tornare. Quante volte hanno provato a far tornare me, sui miei passi? Svariate.

Chi non torna è consapevole della sua scelta. Smettiamola di rompergli i coglioni.

Non ci si innamora più, a Milano

Sembra che ormai a Milano nessuno voglia più innamorarsi. È come una sorta di dilagante nevrosi collettiva, che mi ha portato a pensare all’innamoramento come a uno di quegli sgradevoli compiti che si preferisce lasciare agli immigrati stranieri: raccogliere i sacchi dell’immondizia, saldare pesanti tubi nelle fabbriche, spalare la merda dalle strade e via dicendo. Sì, l’amore lo si trova nello stesso reparto della merda, a Milano.

Cerco l’amore intorno a me e lo trovo sono in coppie di signori anziani che sul tram si tengono ancora per mano: è gente appartenuta a una Milano che non c’è più. Oggi il bistrattato sentimento resta invece in mano a giovani filippine, che su quegli stessi tram vivono l’emozione di un messaggio scritto in gran velocità su telefoni affollati da ciondolini colorati.

Tra le stradine di Brera gli artisti filosofeggiano non offrendo altro che indecisione, nei bar del centro giovani professionisti pranzano senza accorgersi delle persone sedute ai tavoli vicini, e nei pochi ritagli di verde tra via Larga e piazza Santo Stefano -chi ancora si ricorda dell’amore- pensa a mettere in scena la prevedibilità dalla quale noi altri fuggiamo. In via Victor Hugo guardo per terra alla ricerca di un’epoca riesumata solo per le cartoline in bianco e nero vendute nei chioschi di Souvenir. Cerco oltre l’appiccicosa gomma nera regolarmente colata nelle fughe delle mattonelle del pavé, ma gli strati sono ormai troppi e il terreno fertile pare inghiottito dal tempo.

Mentre passeggiavo tra via della Spiga e via San’t Andrea, perso nel ricordo di quel paio di Dior taglia 27 che calzavano a pennello sulle mie gambe ma un po’ meno sulla mia carta di credito, mi sono accorto dell’imperante maleducazione della gente. A cosa serve comprare un costoso paio di Church’s blu quando non puoi camminare per strada senza che nessuno ti schiacci i piedi? Le persone non sanno guardarsi i piedi e non sanno guardare quelli degli altri. Mi stupisce che le persone non vogliano amare, ma vedere le persone riluttanti all’idea di lasciarsi amare, mi scandalizza.

Odio i mariti che si lamentano delle mogli alimentando il giocoso ma raccapricciante stereotipo italiano. Odio chi si alza lamentoso il lunedì perché andrà a fare qualcosa che per sua scelta non ama. Odio chi vive passivamente in attesa di qualcosa (week-end, vacanze, fine del mondo, etc.). Odio chi è sempre pronto a ricordarti che la vita è dolore, sopportazione, fatica e basta. Odio chi crede che la propria esperienza sia la norma.

Amare è a volte anche questo, nell’amara, amorevole, Milano.

Chiuso per rinnovo locali

Dovremmo farlo tutti, prima o poi, nella vita. Anche più di una volta, perché no. Si chiude e si va via. Però niente vacanzine ai Caraibi o gitarella a Saint-Tropez (sono abituato bene, io). Si dovrebbe chiudere per riorganizzare le cose; mettere ordine, rinnovare, ripulire, rimaneggiare, rifare l’inventario, rivedere l’inventiva e subaffittare gli spazi inutilizzati dei nostri cervelli (chissà mai che diventino fonte di reddito fisso per qualcuno).

A Milano facciamo così: stasera c’è un bel Burger King che sprigiona odore di patatine cotte in olio di dubbia qualità, ma l’indomani mattina -come per magia- Zara ha messo radici sostituendo il fast-food, ed è pure già operativo da ben prima che tu aprissi gli occhi. Il tempo di una pubblicità progresso, di una sveltina sul retro di una A6, o giusto quello che si impiega con le tre fasi clinique la sera prima di andare a dormire e… eccolo lì, ha chiuso Burger King e mo’ c’è Zara.

Funzionasse così anche per le persone, sarebbe splendido. Mi piacerebbe chiudere e rinnovare i locali mettendo magari qualche nuovo elemento capace di ambientarsi fino al punto in cui finiresti per chiederti “ma non è sempre stato lì?”. Mi piacerebbe ancora di più poter rimuovere qualcosa che forse poi ti scorderesti del tutto, arrivando a dire “ma no, non c’è mai stata!”. Mi piacerebbe incorniciare le cose più belle e metterle su di un piedistallo. Mi piacerebbe tinteggiare le pareti di bianco e magari concedermi qualche dettaglio color carta da zucchero. Mi piacerebbe eliminare le piante grasse e sostituirle con dei fiori di campo freschi. Mi piacerebbe chiudere, rinnovare i locali e far prendere loro tanta aria prima di soggiornarvi.

Nuovamente.