andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: dipendenza

Basta

Alle 20:30, quello che qualche ora prima era iniziato come un pranzo, si era quasi ufficialmente trasformato in una cena. La sala non iniziava minimamente a svuotarsi, ma poco prima che arrivassero i conoscenti invitati per il dolce, c’è stato un momento in cui mi è sembrato di poter cogliere senza fatica le espressioni sui visi di tutti gli ospiti. È stato lì che una vena di malinconia mi ha colto. Un matrimonio dovrebbe essere un momento di festa per tutti. Eppure tra la torta ricoperta di panna montata, i tovaglioli lasciati stropicciati sulle tovaglie macchiate e i calici mezzi vuoti di cui nessuno si sentiva più proprietario, ho sentito il peso delle questioni che per qualche momento avevo creduto di poter lasciare fuori dalla mia vita, oggi.

Ieri, nel suo letto. Mi sono lasciato tentare, mi sono lasciato condurre nel territorio delle ferite che si aprono in silenzio. Non ho fatto rumore, ma ogni bacio mi ha fatto male. Nella mia saliva, impastati, il desiderio di proteggermi e quello di aprire il cuore del tutto, per un’ultima straziante, inconsapevole e liberatoria pugnalata. Un’estrema unzione che ti solleva dal dolore che ti sei prescritto. Ha aperto la bocca e ho sentito entrarmi dentro la consapevolezza di chi – anche se ti tiene nel suo letto – non ha mai pensato di farti entrare nella sua vita. La repulsione, direttamente giù in gola. E io, incapace di dire basta.

Mentre i corpi si agitavano coinvolgendosi a vicenda in un altrove fatto di bassa virilità, mi sono sentito impotente, umiliato. Furioso.

Portami al limite, lasciati odiare. Guariscimi.

Mi sarei dovuto innamorare di te

Quando impari finalmente a volerti bene, rischi di innamorarti di te stesso. Per gli altri poi è difficile riuscire a tenere il confronto. Se è vero che le relazioni di vecchia data faticano a interrompersi spesso solo per una questione di abitudine e scomodità, funziona allo stesso modo quando sei single? Uscire dalla dinamica del “devo rendere conto solo a me stesso” o dei più prosaici “mi basto” e “non mi sono mai sentito così libero”, può diventare impossibile? La diffidenza che si crea nei confronti dell’altro, può diventare pericolosa, quando si è abituati a contare solo sulle proprie forze? L’amore presumo sia quindi una destabilizzazione, un crollo delle convinzioni, e quasi mai un coronamento dei propri principi, piuttosto uno stravolgimento che ci permettere di crearne di nuovi.

Si dice che il tempo cancelli via ogni dolore, ma potrebbe essere in grado di cancellare anche altro: i nostri sogni, le aspirazioni, e i desideri che teniamo nascosti o per i quali temporeggiamo. Dovremmo passare sempre all’azione, essere più impulsivi, e vivere una vita carica di emozioni, pronti a sbagliare e desiderosi di imparare qualcosa da ogni passo falso e da ogni caduta. Bisognerebbe avere meno paura. Un rimpianto e un rimorso possono anche essere la stessa cosa, ma non hanno sempre a che vedere con il pentimento. Rimpiango di non aver rimorsi, perché gli errori che li comportano sono sempre frutto di una scelta, e le scelte -soprattutto quelle sbagliate- ci fanno crescere e ci fanno diventare persone migliori.

Non ci si innamora più, a Milano

Sembra che ormai a Milano nessuno voglia più innamorarsi. È come una sorta di dilagante nevrosi collettiva, che mi ha portato a pensare all’innamoramento come a uno di quegli sgradevoli compiti che si preferisce lasciare agli immigrati stranieri: raccogliere i sacchi dell’immondizia, saldare pesanti tubi nelle fabbriche, spalare la merda dalle strade e via dicendo. Sì, l’amore lo si trova nello stesso reparto della merda, a Milano.

Cerco l’amore intorno a me e lo trovo sono in coppie di signori anziani che sul tram si tengono ancora per mano: è gente appartenuta a una Milano che non c’è più. Oggi il bistrattato sentimento resta invece in mano a giovani filippine, che su quegli stessi tram vivono l’emozione di un messaggio scritto in gran velocità su telefoni affollati da ciondolini colorati.

Tra le stradine di Brera gli artisti filosofeggiano non offrendo altro che indecisione, nei bar del centro giovani professionisti pranzano senza accorgersi delle persone sedute ai tavoli vicini, e nei pochi ritagli di verde tra via Larga e piazza Santo Stefano -chi ancora si ricorda dell’amore- pensa a mettere in scena la prevedibilità dalla quale noi altri fuggiamo. In via Victor Hugo guardo per terra alla ricerca di un’epoca riesumata solo per le cartoline in bianco e nero vendute nei chioschi di Souvenir. Cerco oltre l’appiccicosa gomma nera regolarmente colata nelle fughe delle mattonelle del pavé, ma gli strati sono ormai troppi e il terreno fertile pare inghiottito dal tempo.

Mentre passeggiavo tra via della Spiga e via San’t Andrea, perso nel ricordo di quel paio di Dior taglia 27 che calzavano a pennello sulle mie gambe ma un po’ meno sulla mia carta di credito, mi sono accorto dell’imperante maleducazione della gente. A cosa serve comprare un costoso paio di Church’s blu quando non puoi camminare per strada senza che nessuno ti schiacci i piedi? Le persone non sanno guardarsi i piedi e non sanno guardare quelli degli altri. Mi stupisce che le persone non vogliano amare, ma vedere le persone riluttanti all’idea di lasciarsi amare, mi scandalizza.

Odio i mariti che si lamentano delle mogli alimentando il giocoso ma raccapricciante stereotipo italiano. Odio chi si alza lamentoso il lunedì perché andrà a fare qualcosa che per sua scelta non ama. Odio chi vive passivamente in attesa di qualcosa (week-end, vacanze, fine del mondo, etc.). Odio chi è sempre pronto a ricordarti che la vita è dolore, sopportazione, fatica e basta. Odio chi crede che la propria esperienza sia la norma.

Amare è a volte anche questo, nell’amara, amorevole, Milano.

La solitudine crea dipendenza?

Mi sorprendo sempre di fronte all’evidenza.

Un gran numero di persone passa il tempo a millantare la bellezza della solitudine, che pare ormai diventata una moderna e inarrivabile conquista. In realtà c’è una gran confusione e spesso si finisce per scambiare la solitudine con la tranquillità, l’indipendenza, il silenzio… cose che sì, hanno a che vedere con la solitudine, ma senza contratto di esclusiva. Banalmente -altre volte- la solitudine non è altro che emarginazione e chi la conosce davvero ha ben poca voglia di vantarsi di qualcosa.

Solo, in uno dei tanti bar di Milano con “lunch-menu”, osservo le persone, sedute sempre in coppia (o relativi multipli), mentre la cameriera toglie il coperto extra dal mio tavolino. A pensarci bene, mi sa che si è frainteso tutto. Essere soli non significa non avere nessuno nel letto la mattina, non significa prepararsi in autonomia la cena, non significa vivere in un monolocale in affitto. La solitudine è probabilmente qualcos’altro. Uno stato mentale, una predisposizione, un modo di vivere e relazionarsi, qualcosa di profondo e radicato (un po’ come la disinvoltura delle Puttane Part-Time, vedi articolo del 6 settembre, su questo blog).

La cosa a parer mio più inquietante, non è tanto la solitudine in sé e nemmeno ciò che la provoca, quello che veramente mi spaventa è ciò che produce: persone che smettono di desiderare qualcuno al proprio fianco (arrivando addirittura a vivere i rapporti con gli altri in maniera frustrante e considerando la coppia una rinuncia a tempo indeterminato all’indipendenza), persone che smettono di cercare un confronto, persone che smettono di cercare il conforto, persone che perdono la capacità di immedesimazione nel prossimo (ammesso che l’abbiano mai avuta), persone che perdono la fiducia negli altri senza soffrirne, persone che finiscono per praticare delle interminabili, vanitose, virtuose, intime, autocelebrative -ma tutto sommato soddisfacenti- masturbazioni mentali, facendosele bastare e diventandone alla lunga dipendenti.

Probabilmente potremmo riassumere il tutto con il termine “egoismo”. Semplicemente, forse. Pare che la solitudine crei dipendenza. Io ne ho il terrore; di ammal(i)armi, tra l’altro, proprio non ne ho voglia.