andreadevis

singer / songwriter / vocalcoach

Tag: capire gli altri

Transizioni

Ho transitato. Dal segno all’ascendente, mi dicono. Dalla Vergine allo Scorpione, per l’esattezza. Ho accantonato quel poco di razionalità che puntualmente mi riportava con i piedi per terra a favore di un più viscerale sconsiderato e sconclusionato approccio emotivo. Più cuore, poca testa, tanta pancia.

Ho scritto lettere, condiviso pensieri, eliminato ogni filtro. Mi interrogo sul valore della condivisione: viviamo in un mondo dove il concetto di “privato” è diventato obsoleto e relativo. Bisognerebbe restare capaci di distinguere un capriccio da un’esigenza. Ho provato a spartire ragionamenti e sensazioni rimaste per mesi confinate lì, tra cuore testa e pancia. Senza pretese, senza accuse, senza fantasie, senza aspettarmi nulla.

Sono stato presuntuoso. Nel tentativo maldestro di ritrovare me stesso ho perso di vista gli altri. Ma ritrovarsi non serve. Ha più senso imparare a immedesimarsi, imparare a levare quell’alone di magia che dipingiamo attorno alle persone che abbiamo bisogno di sapere migliori di quanto in realtà non siano. Per noi. E basta.

La cultura sentimentale scarseggia. Dedichiamo noi stessi a chi non può capirci. Mancano i mezzi, le strutture, l’intelligenza, l’afflato. Ho scritto versi e aforismi a qualcuno che non conosce il mio alfabeto. Poca intelligenza, tanta paura. Un velo di amarezza, ma senza esagerare. Nessuna lusinga. Rimango bloccato.

Guardo fuori dalla finestra e vedo la neve ricoprire i tetti delle auto.

Il pericoloso confine tra vittima e carnefice

Cammini, sotto a un sole troppo caldo per essere solo marzo, e rifletti sul fatto che troppe volte ti sei pianto addosso senza pensare agli altri, concentrato unicamente su te stesso e sulla tua sofferenza. Scelte giuste, sbagliate, sconclusionate… ma comunque sempre dettate dalla mancanza di un sentimento sufficientemente forte dal farti perdere la testa. Ma le altre, teste? Le persone soffrono, ma se sei impegnato a piangerti addosso, fatichi a vederlo. Si passa così dall’essere vittima “della vita” a carnefice; colpevole di aver alimentato un’illusione che non è mai a senso unico.

Ti lecchi le ferite certo che il mondo ce l’abbia con te, ma non vedi il male che hai fatto. Ti sembra che la sceneggiatura preveda sempre i soliti passi falsi, e provi a farti coraggio cercando di capire cosa ci sia che non va.

Ti guardi, e pensi che -a trent’anni- sia arrivato il momento di cambiare, ai tuoi occhi prima di tutto. Il lavoro più duro sarà liberarsi di quell’immagine che hai inseguito -faticando- per troppo tempo e aspirare a una nuova identità, più autentica, lontana da chi sei e vicina a chi sarai. Dovrai essere creativo, cambiando la quotidianità e impostando i rapporti senza essere vittima dell’idea di quelli che già hai vissuto.

Superato l’ostacolo del rinnovamento, sarai pronto a vivere nuovi spazi, nuove persone e nuove relazioni, consapevole dell’autenticità di chi si muove tra il ruolo della vittima e quello del carnefice senza diventare mai né l’una né l’altro.

Un piatto d’amore ma senza contorno

Alla fine non può che andare così: si assiste a una dissociazione del cuore, si osserva con stupore un fenomeno dilagante e in un certo senso allarmante. Non riusciamo più a trovare la complicità “dell’altro”, perché l’offerta è senza dubbio troppo ampia; un’offerta confusa, fatta di materiale scadente, di tante parole, e cui manca una dottrina di base convincente. Un tempo era tutto più difficile (o facile?) e si viveva in una dimensione quasi paesana: ci si innamorava della vicina di casa, del compagno di scuola; ci si sposava con la ragazza conosciuta al matrimonio di amici, si flirtava con qualcuno incontrato in vacanza. Viviamo in un’epoca dove il lassismo dato dalla rete -grazie alla quale schermiamo la nostra parte più vulnerabile- relativizza il concetto di “contatto umano”.

Oggi cerchiamo di avvicinarci a persone distanti da noi anni luce; non solo geograficamente, ma anche psicologicamente e mentalmente; persone che non ci conoscono, e che probabilmente stenteremmo a comprendere davvero, se solo avessimo quella tanto agognata possibilità di averle accanto per un po’ nella vita di tutti i giorni.

Quella dei trentenni di oggi è una generazione che riflette, che vive sulla propria pelle la frustrazione e il desiderio di un amore nel quale ha quasi smesso di credere, finendo per andare a cercare sottobanco dosi di facile e mero sentimento unicamente per soddisfare un bisogno. Il contorno manca, è sfumato. Si crede che il dolciastro bordo dell’impulso amoroso altro non sia che il nauseante preambolo di un incontrollabile mal di stomaco. Così le persone perdono coraggio: gli uomini non sono più degni di questo nome (ed essere “uomini” non ha nulla a che vedere con l’orientamento sessuale, giusto per precisare) e le donne diventano sempre più aggressive, cercando di ribaltare un modello al quale sentono di non appartenere.

Se leviamo la paura, l’erotismo, la conquista, l’incognita, il desiderio della scoperta, la sofferenza del cambiamento e quell’impegno tipico di chi sa amare, cosa rimane? La questione è anche un’altra: togliendo all’amore tutto il suo contorno, ci lasciamo appagare dall’abitudine al suo riflesso, e ci meravigliamo quando scopriamo di non essere più capaci di imparare a volerci bene.

Il vero effetto collaterale di questo surrogato del sentimento è la cecità di chi, l’amore, ha smesso di saperlo riconoscere da tempo. E nemmeno lo sa.