La lettera che non ti consegnerò mai (scusa se ho voluto credere alle cose che non mi hai mai detto)
di Andrea Devis
Eravamo sul divano, era domenica e pioveva. O forse non pioveva, ma mi sentivo come quando fuori piove senza sosta, e io sono al sicuro. Ascoltavamo Sade cantare is it a crime?, e qualche candela lasciata accesa per rendere tutto un po’ più cliché come piaceva a me illuminava i margini dei nostri corpi. Il confine tra la mia bocca e la tua si perdeva, mentre imparavamo a fingerci impermeabili al mondo, rimasto fuori insieme alla pioggia, immaginaria o reale che fosse.
Mi bastava. Una parvenza di quotidianità. Un po’ di caffè, il tuo odore tra le lenzuola, le frequenze di un’altra voce oltre alla mia negli angoli della casa. Spazi fisici e mentali, riempiti.
E mentre questa sofferenza diventa familiare, mi spavento. Resta solo un ricordo, sempre più opaco, appannato. Mi immergo nei pensieri sbagliati: il masochismo mi fa perdere la capacità di distinguere gli stati d’animo. È un filo sottile, quello che mi lega alla tua immagine: un cordone organico, umano, umido, per niente fragile. Eravamo un colore saturo, incredibilmente pieno e netto. Non una sfumatura.
Scorci di un passato ancora non abbastanza remoto. Frammenti di istanti. Bicchieri vuoti. Le tue scarpe vicino al pianoforte. I cuscini per terra. Noi ovunque.
Non ti consegnerò mai questa lettera perché non possiamo permetterci il lusso di porci domande, o di darci risposte che comunque non sapremmo articolare. Patetico, anacronisticamente romantico, inutilmente caparbio e psicologicamente instabile. Ho scritto tantissimo in questi mesi; cose belle, alcune commoventi. Tanta gente vi si è ritrovata. Ho provato a spurgare la delusione, a metabolizzare, a demonizzare, a relativizzare. Sono qui che scrivo una lettera che non consegnerò mai. La fragilità, la sensibilità e l’empatia sono armi a doppio taglio, con le quali mi ferisco sempre. Imparerò a maneggiarle, prima o poi.
Non esisti, se non nella mia testa. Ti chiedo scusa, per averti inventato, e per le parole che mi sono scappate, cadendoti addosso. Ti ho inventato perché ho troppo sentimento inespresso. Cerco di occultarlo ovunque, ma ormai nemmeno la mia arte riesce più a contenerlo e a trasformarlo. Troppo carburante. Sei stato la proiezione di un bisogno, e siccome mi piaci e hai gli occhi che sorridono, sei diventato la concreta manifestazione di un bisogno per definizione astratto. Avere qualcuno vicino è molto concreto, però.
Così attraverso un’altra mezzanotte, riempiendo lo schermo di lettere, che poi sono il miglior psicofarmaco, insieme alla musica. Un’orgia di parole che si combinano formando mucchi di pensieri.
Scusa se ho voluto credere alle cose che non mi hai mai detto.
Anch’io ho scritto diverse lettere che non ho mai spedito. Anch’io le ho scritte a un fantasma creato da parole che non mi sono mai state dette. Anch’io sono masochista, ieri come oggi come sempre.
Forse ci piace innamorarci dei fantasmi, perché saranno sempre più ideali della realtà, sempre e comunque più nostri.
Come hai ragione, Los! Però queste lettere ai fantasmi fanno bene. Qualcuno di recente ha criticato il mio “mettere in piazza” sensazioni così personali, e forti. Sapere di persone che vi si ritrovano -in quelle stesse sensazioni spiazzanti e che a volte ci lasciano amareggiati- per me è invece un grandissimo conforto. E confronto.
Non solo ci si ritrovano, ma si ri-scoprono. O almeno, questo succede a me; aiutano a rendersi consapevoli di alcune nostre parti nascoste, di cose che non ci eravamo mai detti, leggendo negli specchi che sono gli altri. Per me questo è molto bello, perché mi fa crescere.
Mi fai sciogliere!
Una stellina non può bastare, di fronte a queste parole. Mi ricordano quel vuoto un po’ polveroso delle verità che sai e fingi di non sapere, cercando d’essere felice; delle verità che poi tanto inesorabilmente arrivano anche ai tuoi occhi… E non puoi neanche più mentire, e puoi solo capire.
Mi hai colpita, davvero. Complimenti.
Grazie!
Sì, a volte è proprio così. Ma scrivere una lettera che mai si consegnerà mai è utile. A noi stessi, s’intende. Ci permette di spurgare l’amarezza e di andare avanti (o comunque di provarci, sentendoci un poco più leggeri).
E tu mi fai pensare 🙂 (ma se riesco a venire in quel di Milano il prossimo anno, ce lo si prende un caffè ensemble?)
Certo, e farò di più: ti porterò a prendere il caffè in uno di quei meravigliosi bar dove ogni tanto mi rintano a scrivere 🙂
la mia casella mail conta una quarantina di bozze, molte di queste sono lettere mai consegnate, spesso per la stessa persona.
te l’ho scritto altre volte di quanto mi rispecchio nelle tue parole, ma amo anche tanto il modo in cui riesci a materializzare immagini familiari, vissute, immaginate o sognate.
non cedere alle critiche sul mettere in piazza i tuoi sentimenti, a occhio e croce penso di essere un pochetto più vecchia e, quando l’ho fatto, quasi mai è stato controproducente. semmai illuminante. forse è un limite altrui quello di non riuscire a liberarsi e confortarsi e confrontarsi.
tu continua, io leggerò sempre con vera approvazione e vicinanza.
Che bel commento! Grazie!
No, non cedo. La condivisione è spesso quasi terapeutica… io non me la sento proprio di condannarla!
p.s. sono curiosa su quali siano le tue tane per scrivere 🙂
Milano è piena di posticini carini dove ci si può lasciare ispirare dal via vai di gente… ne ho uno in particolare, in zona piazza Sant’ Eustorgio…
uh, penso di aver capito anche quale. 🙂
Anche secondo me hai capito!
…il miglior cheesecake della città.
(Ah, dopo il mio)
Guarda che così poi ti chiedo di assaggiare il tuo cheesecake! (ieri ne ho mangato uno buonissimo nell’ostello più cool della città! ;))
[…] a come stavo quando ti avevo addosso. E mi lascio sfiorare dall’idea di condividere con te le parole che ti ho scritto. La tua assenza acuisce dettagli e citazioni che non credevo nemmeno di ricordare. Il Piccolo […]