Musica da buttare

di Andrea Devis

Stavo pensando alle storie che finiscono male; o anche alle semplici frequentazioni, che muoiono prima di diventare qualcosa di più articolato. Quando i rapporti si chiudono rovinosamente, sacrifichiamo con loro anche una buona dose di componenti accessorie, ipotecandone per sempre il significato.

Ho totalmente sputtanato negli ultimi mesi ben due album, che tra l’altro avevo recuperato con discreta fatica: Anita Baker è quasi del tutto ormai relegata alla mensola più alta dei CD, mentre Sade nemmeno posso più nominarla. È un gran peccato perché ritengo brani come “Is It A Crime” e “No Ordinary Love” dei veri capolavori, ma non riesco più ad ascoltarli dissociandoli dal pensiero di quando amoreggiavamo sul divano persi tra note, pensieri, consapevolezze mascherate, abbracci effimeri, paure e mani.

Poi ci sono anche i luoghi, che diventano memoria di incontri e sguardi, ma con il tempo si riesce a riscriverli con più facilità. La musica è impegnativa: si impregna delle nostre sensazioni e poi è quasi impossibile slegare i nodi che si formano. Precipito nella mia adolescenza quando ascolto Vonda Shepard, che è poi l’autrice della colonna sonora di un telefilm che guardavo all’epoca. Non a caso ho scelto di seguire questa vocazione, provando a essere un musicista con la temeraria pretesa di coniugare parole, melodie e sensazioni.

Le canzoni possono diventare un terribile strumento di tortura, ed è proprio come con le persone: quelle che ci piacciono di più sono quelle che ci fanno più male, e dalle quali molto spesso inspiegabilmente scappiamo.