Due minuti e vi faccio accomodare
di Andrea Devis
Entro da California Bakery (catena di ristoranti/bar a impronta americana, molto in voga a Milano negli ultimi anni) -visibilmente da solo- e mi sento domandare se vogliamo accomodarci. Mi rivolgo come suggerito a una collega, che mi chiede se vogliamo fare il brunch; subito dopo averle specificato che il tavolo che mi interessa è per una sola persona, mi sorride e mi dice che solo due minuti e intanto vi faccio leggere il menu.
Forse è un problema di Milano -dell’Italia- ma mi sembra che tutti siano concentrati sulla socialità: virtuale o reale che sia, veniamo catalogati a seconda delle persone che frequentiamo. Mi siedo al tavolo e mi guardo intorno: ci sono le cosiddette famiglie tradizionali, le ragazzine adolescenti che starnazzano, le compagnie di gay, le chiassose signore sulla sessantina che si sentono come le ragazzine adolescenti che starnazzano, le moderne mamme per amiche che accompagnano le figlie, gli universitari che temono di finire fuori corso, le coppie tutte bacini e abbracci, le coppie annoiate che ripensano ai bacini e agli abbracci, i colleghi di lavoro che fingono di starsi simpatici con frasi di circostanza, e altre sotto categorie di gruppi sociali non meglio definibili.
Quando stavo a Los Angeles, ricordo che andavo al supermercato e trovavo ottime mono porzioni, perfette per improvvisare una cena davanti al Mac (Machintosh, non Mac Donald) senza interrompere la scrittura. Non mi sentivo un alieno e la gente sola al bar non stava per forza aspettando (o fingendo di aspettare) qualcuno. Ci si guardava e si faceva amicizia, senza necessariamente un secondo fine. Chi scriveva, da Starbucks, amava farsi osservare, alternando vistosi stati d’animo a piccoli sorsi di caffè. C’era quasi una sorta di ritualità, c’era un certo piacere nel fare i solitari, c’era la consapevolezza dell’individualità.
Qui è tutto un puttanaio. Gente che seduta allo stesso tavolo neanche parla e si limita a digitare qualcosa sull’iCoso, ragazzi che anziché sorridere a qualcuno seduto sulla panca a fianco, cercano di scoprire come si chiama per fare una ricerca su Facebook, ragazze pseudo alternative che lanciano tweet come briciole ai piccioni, accompagnate dal rumore degli scatti fotografici per Instagram (tutti improvvisamente grandi fotografi da quando esistono i filtri pre impostati).
L’accanimento che le persone mettono in questo, si riconduce non al piacere per quello che fanno, ma agli altri. Gli altri ci giudicano e ci guardano (o almeno, così narcisisticamente si pensa, sentendosi al centro di ogni attenzione) e dobbiamo quindi dare l’immagine che vogliamo, e che il più delle volte non è altro che una costruzione per coprire la faccia che abbiamo e che ci meritiamo, ma con la quale quasi mai ci sentiamo a nostro agio.
Molto bello e …. Molto vero , purtroppo…
Quando giravo per l’Europa e le Americhe per lavoro,talvolta mi capitava di avere serate ” buche” , cioë senza impegni più o meno mondani o di lavoro, e uscivo da solo ….
Ho conosciuto un mondo di persone diverse….non ne giudico nemmeno una ,sarebbe molto stupido,, ma le ricordo tutte …
La mia famiglia é una vecchia famiglia Milanese ….ma Milano é solo una piccola cittâ …la gente é molto provinciale …un po’ di tempo fa ho cambiato casa ed incontrando il mio nuovo vicino mi presentai :
” e cos’é questa presentazione all’ americana ? ” mi disse …
Ci mise più di un anno a ricambiate il mio saluto…..
Mmmm… gente che se la tira. E non lo sa.
[…] Andrea Devis, “Due minuti e vi faccio accomodare”: Forse è un problema di Milano -dell’Italia- ma mi sembra che tutti siano concentrati sulla socialità: virtuale o reale che sia, veniamo catalogati a seconda delle persone che frequentiamo. […]
Tante “piccole” solitudini, superaccessoriate, che se messe insieme rimangono tali e anche più sole di prima. Ultimamente è vero che la maschera è spesso l’interfaccia tecnologica di turno, come se banalizzando il linguaggio ci potessimo capire meglio. Peccato (e meno male) che il sistema binario non colga tutte le sfumature che sono in noi determinanti e che per questo dovrebbero essere irrinunciabili. È come un andare in giro bendati, dove la vista è una vista “emozionale”, se così si può definire. Eppure è un gioco che ci piace giocare, che ci rassicura e spaventa per tutti i fraintendimenti che inevitabilmente comporta. Scrivere adesso fa parte di questo gioco. Nel tuo scritto precedente dici: “indagare “l’altro” diventa un’attività pressoché paranormale, che può portare a un inesauribile interesse o alla rovina più totale. Non sempre sappiamo cosa vogliamo e non sempre abbiamo voglia di scoprirlo.” Forse è per questo. E forse è perché l’altro ci assomiglia tanto da farci paura, e attrarci al contempo. Animali da branco o no, finiamo per cercare il nostro e l’altrui anonimato in angoli appartati nei tanti mondi reali o illusori in cui bazzichiamo più o meno abitualmente, in comunità virtuali, locali all’americana molto in voga a Milano, autogrill, in malinconici e inopportuni plurali. Ognuno a suo modo, ognuno immobile, tutti aspettando che qualcosa (ci) cambi.
A pensarci, facciamo tenerezza.
La tua risposta, puntuale e talmente precisa che sembra quasi un mio scritto, mi lusinga.
Hai interpretato perfettamente le mie parole (o forse mi conosci, K.).
Grazie.
E comunque la cosa dei “malinconici e inopportuni plurali” è da perderci la testa.
Non posso che sorridere
Per il resto
..”Te lo dirò in un’altra vita, quando saremo tutti e due gatti.”
Ottima citazione.
Vero, qui è tutto un puttanaio. E’ diventata, o è sempre stata, una questione di immagine, come qualcosa di totalmente scorrelato dall’identità.
Solo insicurezza o qualcosa di più profondo?
Probabilmente un’inflazionata insicurezza, all’inizio. Poi, col tempo, tutto diventa radicato, profondo, dando vita a una nuova “normalità”.
Questo è quello che vedo io!
Tutto cosí vero, che non ho nulla da aggiungere.
…ottimo 🙂